martedì 10 ottobre 2017
Outsider, apprezzato oltreoceano, il musicista scrive per orchestra: una scelta fuori dagli schemi per fare una musica spirituale, come Ellington
Dino Betti al pianoforte

Dino Betti al pianoforte

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Come in ogni grande storia che si rispetti anche nei cento anni del jazz ci sono, accanto ai protagonisti, i cosiddetti “ maverick”: o cani sciolti. E nel jazz italiano, il maverickper eccellenza risponde al nome di Dino Betti Van Der Noot da Rapallo. Classe ’36, primo disco a 41 anni ma poi due volte nelle hit di “Usa Today”, Betti è l’unico jazzista italiano che non si fa notare accanto a uno strumento ma in veste di compositore, orchestratore, direttore d’orchestra. Tanto che le sue ultime fatiche discografiche, una più bella e intrigante del-l’altra, da Ithaca/Ithaki a God save the Earth, da The stuff dreams are made on a Notes are but the wind, lo vedono sempre direttore delle proprie opere eseguite da ampio organico: esattamente come un signore che il jazz l’ha elevato a musica d’arte, e si chiamava Duke Ellington. È curioso che in pochi abbiano seguito la lezione del Duca durante cento anni di jazz colmi di virtuosi, trii e quartetti ma sempre meno dediti allo sviluppo del linguaggio in chiave compositiva o orchestrale: però poi, quando capitano maverick tipo Dino Betti Van Der Noot, se ne accorgono tutti. Tanto che Betti compare persino nella Biographical Encyclopedia of Jazzdi Leonard Feather e Ira Gitler, fra i principali studiosi del genere; e che Giorgio Gaslini, che del jazz aveva fatto lingua d’arte e azione nella società, scrisse come segue, del cd di Betti September’s new moon. «È un trasferimento della storia del jazz in un nuovo mondo possibile che sa di nuova classicità e segreta intimità »: nel quadro, sempre Gaslini dixit, di un’arte in cui «l’uomo predomina anche nel lavoro di squadra» e (aggiungiamo noi) di solismi. Proprio come accadeva nelle suite, nei concerti sacri e in generale nell’agire jazz di Ellington.

Cosa significa oggi scrivere jazz per orchestra?

«Evitare la tentazione di debordare, non proporre opzioni standardizzate ai musicisti bensì qualcosa che sia loro di trampolino. Chi lavora con me parte da improvvisazioni scritte, per così dire, ma pensate sui singoli artisti perché poi vi si esprimano secondo capacità e personalità. Negli Usa mi hanno chiesto perché certi solisti con me suonano in modo diverso… Li spingo a muoversi fuori dagli standard, a rinnovarsi e- sprimendosi. Cerco musica fuori schema » .

Quale artista l’ha fatta innamorare del jazz?

«Louis Armstrong, lo sentivo alla radio da bimbo. Poi ho avuto un’epifania americana, come con i libri: da un lato ho scoperto Hemingway e Steinbeck e dall’altro il senso cameristico di Mulligan e la potenza moderna di Kenton, poi Parker che fu uno choc, Mingus e il Modern Jazz Quartet, sottovalutato. John Lewis includeva nella sintassi del bebop, senza rinunciare alle radici, la lezione europea e la musica classica. Ma spesso si sottostima quanto il jazz debba a Stravinskij o quanto Miles Davis si sia riferito a Bartók, o Kenton a Ravel. Io poi ho guardato anche a chi stabiliva percorsi stimolando i musicisti, da Ellington a Count Basie, e in più ho avuto la fortuna a Milano di vedere dal vivo Young, Getz, Powell…».

Perché pochi artisti hanno seguito le orme del Duca, di Basie, di Lewis, o anche di Benny Goodman?

«Già all’inizio il jazz era perso in orchestre da ballo perché quelle ottenevano ingaggi: Ellington fu anzi il primo ad alternare proposte commerciali e scrittura di livello. Ma comunque rimaneva in un’élite mentre Miles Davis alla fine ha portato il jazz alle masse contaminandosi col rock: insomma, non è facile vivere di jazz pensandolo in quel modo».

Per questo si punta spesso sui soliti standard?

«Beh, è comodo. Il pubblico li conosce e apprezza, tu vendi i dischi. Poi c’è chi li lavora in modo sublime e chi meno: al di là di tutto Miles con una nota raccontava una storia, come la Callas. Poi comunque negli standard c’è sempre terreno per esplorare, armonicamente o melodicamente, e la musica di oggi a certi livelli non arriva più come faceva decenni fa».

Quali sono a suo avviso i limiti del jazz del 2000?

«La scolasticità su tutti. Troppi musicisti si adeguano a quanto hanno appreso senza introiettarlo per farne qualcosa di nuovo: poi credo ci siano più artisti e dischi di quanto il mercato sopporti, bisognerebbe tornare a scegliere cosa testimoniare e cosa no, una cosa è la scoperta di nuovi stili altra lo schema del ripeterli. Inoltre mancano personaggi come Rudy Van Gelder, ingegnere del suono che metteva la propria capacità critica al servizio degli artisti e così alla fine da lui venivano solo album solidi».

Cosa significa oggi “jazz” per lei?

«Dovrebbe essere musica per la musica: il jazz è stato il fenomeno maggiore del XX secolo, ha fatto tornare all’improvvisazione che già c’era con Bach eVivaldi ma sovvertendo molti modi di pensare la musica. Però bisogna ascoltarlo, non orecchiarlo».

Quali dischi di 100 anni di jazz darebbe ai giovani?

«Uno di Ellington, uno di Mingus per me fra i massimi compositori, uno del Modern Jazz Quartet. E dall’Italia uno di Gaslini, uomo generoso, didatta incredibile, autore che faceva volare i musicisti: io l’ho conosciuto nel ’57, quando cercava proprio di colmare il gap fra jazz e musica contemporanea».

Ma il jazz è anche etica, come Gaslini sosteneva?

«Sì, soprattutto non deve diventare intrattenimento: io cerco spiritualità nelle mie opere, e vorrei che qualcosa rimanesse sempre in chi ascolta. Ma bisogna che ogni brano abbia personalità e risponda a un preciso progetto poetico nonché proprio etico. Non è facile, non ci riusciva nemmeno un musicista e orchestratore storico come Gil Evans».

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