venerdì 14 agosto 2015
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Era la fine dell’estate 2002, quando i settanta minuti dell’album The rising di Bruce Springsteen approdavano nei negozi del mondo. Subito si parlò di un ritorno al rock del Boss, a ben dieci anni da Lucky town e dopo un periodo di sperimentazioni fra radici e acustica; e subito si rimarcò anche la rentrée di Springsteen tout-court, a tre anni dal disco precedente. Solo che The rising non era un Cd normale. E soprattutto non parlava di una città fortunata (Lucky town significa ciò).“Rising” invece ha un significato molteplice e implica nel titolo del disco – nonché nel brano omonimo – sia una salita fisica sia la prospettiva di una rinascita; del resto il medesimo protagonista del pezzo si può leggere sia come un pompiere che sale le scale di un palazzo in fiamme sia come l’uomo che vuole, deve rinascere. Perché si parla dell’11 settembre 2001 in The rising. Che non nasce come un concept-album ma in pratica lo è: è anzi uno dei massimi concept della storia per il fatto che non nasce a tavolino ma dalla vita, e spazia dalla reazione emotiva all’immane tragedia delle Torri Gemelle (e non solo) sino alla consueta, acuta, springsteeniana analisi di valori e senso dell’uomo. Analisi che prende le mosse dallo scempio, ma diviene subito universale. Che si trattasse di un disco dal riferimento primario ben preciso, Springsteen lo spiegò senza mezzi termini. «Sono preoccupato, i miei bambini sono spaventati, urlano “I terroristi!” di continuo, hanno assorbito uno choc collettivo come per me fu il concetto dell’atomica. Noi infilavamo la testa sotto il banco, mio figlio mi chiede come facciamo se i terroristi arrivano che siamo al cinema, come scappiamo. È stato inevitabile scrivere di quanto accaduto, ripetendo la parola “fuoco” in diversi brani». Fuoco, già. Perché agli americani, ma non solo a loro, restano impressi gli attimi tremendi delle torri in fiamme, i coraggiosi pompieri che saliti per salvare la gente moriranno nel crollo degli edifici tanto quanto coloro che per sfuggire al fuoco si stavano gettando dai piani alti. E Springsteen, oltre che americano, è del New Jersey, contea di Monmouth a un’ora da New York, fra le più colpite per numero di vittime, pendolari degli uffici delle Twin Towers. E raccontò in un’intervista: «Stavo uscendo da un negozio il giorno dopo l’attentato, un fan mi ha riconosciuto e mi ha gridato “Abbiamo bisogno di te”. No, non potevo non scriverne». Bruce Springsteen era comunque già pronto a tornare in studio, e finalmente (per gli adepti) con la “E street band”: molti brani quindi li aveva già pronti, il disco nascerà così dall’unione di inediti con pezzi selezionati fra quelli già pensati; e qui troveranno però spazio canzoni sorprendentemente attuali o preveggenti, per quanto tutte ripensate alla luce dell’11 settembre. Parliamo di My city of ruins, che presenta in tv il 21 settembre 2001 in una serata di riflessione e raccolta fondi, o di Nothing man del ’94 che spiazza: «Non avrei mai immaginato / di leggere il mio nome sul quotidiano locale / la mia vita cambiata per sempre / in una nuvola di vapore rosa». Countin’ on a miracle, del 2000, viene ripresa apposta come «Pezzo per sperare sempre, nella vita». E Worlds apart è selezionata volutamente per dire che non tutti gli stranieri sono terroristi, come del resto Waitin’ on a sunny day, volutamente lieve contro il razzismo, e anche Mary’s place, incitamento a reagire. Poi però ci sono, in The rising, i brani composti dopo l’attentato. Il primo, già quasi pronto per la serata tv del 21 settembre 2001, è Into the fire, nel fuoco. La protagonista è una vedova, una delle tante (ne ha cantata una anche Neil Young, in modo maestoso) che hanno ricevuto un addio al telefono, poco prima del crollo delle torri o dello schianto degli aerei. E il finale, quasi gospel, è una preghiera per tutti: «Possa la tua forza darci forza / Possa la tua fede darci fede». L’ultima che invece il Boss scrive per The rising è la canzone Empty sky, cielo vuoto: il cielo del day after, senza aerei, con la polvere ancora nell’aria e il lutto nel cuore. «Mi son svegliato / respiravo a fatica / solo un incavo vuoto nel letto dove dormivi tu / Davanti a un cielo vuoto». Ma nel “post-11 settembre” c’è anche Further on (up the road), definita da alcuni come «canto di uno spettatore di un funerale cui non avrebbe voluto assistere». Anche You’re missing (Tu manchi) prova a rielaborare i troppi lutti e l’enorme ferita al cuore dell’America, ma è la “title track” a chiarire fino in fondo il nucleo di The rising. Da un lato, il coraggioso pompiere che sale verso la morte per aiutare gli altri; dall’altro, la certezza che dalla morte si rinascerà, che per l’uomo c’è possibilità di riscatto, che per gli Usa forse è anche necessario, cambiare qualcosa. Springsteen canta «È il momento di sollevarsi» nel momento stesso in cui umanamente è sconvolto dalla paura che tutto sia vano, e alla fine consegna al mondo intero un capolavoro destinato ad entrare nella coscienza di ognuno e nella storia come un pianto, sì, ma anche come uno sprone a non rinunciare mai, a credere nell’uomo. Perché si può sempre risalire dall’abisso.
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