Edward Hopper, “Mattino a Cape Cod” (particolare). Dalla mostra “Videro e credettero” - Itaca
Anticipiamo un estratto dell’introduzione di Antonio Spadaro al suo nuovo libro Oltrecolore. Hopper Rothko Warhol Basquiat (Vita e Pensiero, pagine 144, euro 15,00). Il direttore della rivista “La Civiltà Cattolica” lo presenterà domani a Roma nell’auditorium del Maxxi alle 18; introduce Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi, intervengono Gregorio Botta, artista visivo e giornalista, e José Tolentino Mendonça, prefetto del dicastero per la Cultura e l’Educazione.
Hopper è il pittore dell’attesa. I personaggi (e i paesaggi) dei quadri di Hopper sono sempre sulla soglia, in una sorta di perenne coniugazione perifrastica attiva: «stanno per», «sono sul punto di». Hopper cava poesia dalla suspense. Non è il pittore della solitudine e della waste land, come spesso viene descritto. È molto di più: il cuore pulsante dell’ispirazione di Hopper è uno sguardo di profonda incubazione, di assorta aspettativa, come in attesa di un’annunciazione o di una visitazione. È come se una rivelazione fosse a portata di mano, ma non ancora compiuta. Lo spettatore si interroga: «Che cosa ha portato a quel momento? Che cosa avverrà?». La risposta sta fuori, rispetto alla superficie del quadro. Ed ecco che ci accorgiamo, dunque, che il colore viene dall’Oltre. È la sua annunciazione, che rimane aperta. Ed è fuori del quadro.
Rothko dipinge macchie di colore e non figure umane o elementi ordinari del mondo che ci circonda. Perché? Egli riflette sul fatto che ci fu un tempo nel quale gli artisti vivevano in una società più «concreta » della nostra, e dove «il bisogno pressante di un’esperienza trascendente era ben compreso e gli era conferito uno statuto ufficiale». Adesso invece tutto questo non è più, e dunque va aperta la tela a questa esperienza trascendente, senza la quale l’arte sprofonda nella «malinconia ». Rothko crea la possibilità di un’epifania: è l’«esperienza di una realtà trascendente », «una sorta di preghiera a un dio sconosciuto », scrive. Il margine della tela alla fine apparirà allo spettatore, immerso nel colore, come un orizzonte più che come un limite. Bisogna «entrare dentro» la tela, affacciarsi sul panorama che dispiega. L’opera d’arte non è un «messaggio», ma una fi nestra, un’apertura. L’artista è colui che ha il dono di aprire questa finestra lì dove prima c’era un muro. Rothko si è spinto oltre l’impossibile, riempiendo di luce persino il nero. Di più: ha fatto sì che la luce si sprigionasse proprio dal nero [...].
Warhol è il pittore dell’altrove. Strano a dirsi. Le sue icone seriali sembrano (e sono) tutte nell’al di qua, mondane e popolari. Ed è pure vero che, se guardiamo i quadri di Warhol avendo presenti le icone orientali, verifichiamo che sono molti gli aspetti comuni. Il confronto tra le icone orientali e i quadri di Warhol può sembrare ardito, ma non lo è. I suoi quadri sono vere e proprie icone pop. Le sue tele sono quelli dei santi pop. Ma proprio per questo non hanno assolutamente nulla di religioso. Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica. Il mondo di Warhol non è da decifrare, ma è deci-samente decifrato nelle sue valenze di nulla, di vuoto. L’icona di Warhol è l’esatto opposto dell’icona orientale: è la sua immagine speculare. Fanno teologia apofatica, negativa dell’Oltre. Non c’è spazio per Dio nell’arte di Warhol. E questa è la garanzia della sua salvaguardia: Dio è sempre «fuori» del quadro.
Basquiat è un artista che impedisce ogni forma di distacco: l’immagine opera un effetto immediato di ammirazione e inquietudine, oppure anche di rifi uto e turbamento. L’unico tratto comune a tutte le tele è la grande energia che colpisce lo spettatore, un’energia che sembra venire da molto lontano. Ricorda da vicino quella propria dei disegni dei bambini che non hanno ancora appreso le regole e vivono l’anarchia espressiva della loro immaginazione. Trapela dalle sue opere un inesausto e puro desiderio di bellezza, ma anche un’angoscia mai vinta e un gusto per l’orrido; un conflitto invincibile tra l’ossessione per la materia e una tensione spirituale. Basquiat riconosce nei suoi quadri non immagini, ma «presenze » vive. Sono «icone»: non del divino, ma del lato oscuro dell’esistenza, che richiama un prepotente bisogno di liberazione, espresso anche con precisi riferimenti religiosi. In una tela del 1982 un battezzato è inquadrato in un gesto di ribellione e sfida al male: una preghiera che leva in alto le mani verso un Oltre e che sa tramutare la disperazione in desiderio. Queste mani resteranno così nella vita e nell’opera di Basquiat: levate in un gesto senza compimento o traguardo, in un destino interrotto.
Però secondo alcuni l’arte è autoreferenziale e pensa solo a sé stessa come autonomo strumento di salvezza: l’arte può candidarsi come mezzo insostituibile per salvare. L’arte può chiudersi nel suo guscio, teorizzando la propria autosufficienza, e concentrarsi su sé stessa come assoluto. Se l’arte si proponesse come via di salvezza, sarebbe un idolo, insomma, non una icona. Ma realmente il fenomeno artistico è così narcisistico per propria naturale indole? Questo libro vuole essere pure un contributo alla risposta a questa domanda. L’Oltre è consustanziale al colore di Hopper, Rothko, Warhol e Basquiat. Il colore è «ultramarino», viene dall’aldilà di un mondo noto e chiuso in sé stesso. Per questo le loro opere sono «icone» di questo Oltre rispetto all’opera stessa. Icone dell’attesa, icone della luce, icone dell’altrove, icone del lato oscuro.
Quello che propongo è un modo – uno tra i tanti – di leggere la loro opera. Ma anche un modo per comprendere e vivere meglio l’esperienza del colore. Per questo il volume si chiude con una rassegna di alcuni colori [...]: l’esistenza è sempre radicalmente colorata. Il colore è un potente canale di relazione, di comunicazione, creando attrazione e repulsione, abbinamenti e atmosfere. In poche parole: l’esperienza trascendentale dell’Oltre propria del colore non è che la prosecuzione di una esperienza ordinaria: il colore è finestra, canale attraverso il quale il mondo viene a me senza fare naufragio.