
Un fotogrammiadi “Karthoum”, diretto da Ibrahim “Snoopy” Ahmad, Timeea Ahmed, Rawia Alhag, Phil Cox e Anas Saeed - -
Due bambini, Lokain e Wilson, raccoglitori di bottiglie nelle strade di Khartom; una donna, Khadmallah, venditrice di tè su una bancarella; un uomo, Majdi, amministratore pubblico dal passato non proprio specchiato; e un giovane, Jawad, volontario dei comitati di resistenza. Si muovono nelle strade polverose di Khartum, la capitale del Sudan, vite comuni che si intrecciano a quelle di tanti altri. Poi, nell’aprile del 2023, scoppia la guerra e cambia tutto. Mondi che vanno letteralmente a pezzi. Improvvisamente. E niente sarà più come prima. Neppure il film-documentario Khartoum - codiretto da Ibrahim “Snoopy” Ahmad, Timeea Ahmed, Rawia Alhag, Phil Cox e Anas Saeed - che sarà presentato in prima italiana al Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano (Fescaal), dopo aver vinto lo scorso febbraio il Berlinale Peace Award in Germania. Il conflitto civile - che sta devastando il Sudan e ha provocato quasi 13 milioni di profughi e sfollati e la più grave (e dimenticata) crisi umanitaria al mondo - divampa proprio nel mezzo delle riprese. Anche protagonisti e filmaker sono costretti a fuggire in Kenya. Ma il racconto prosegue in maniera estremamente originale ed efficace, grazie all’uso di tecniche ibride che combinano filmati documentaristici con ricostruzioni in green screen. È una cifra distintiva in particolare del lavoro di Ibrahim “Snoopy” Ahmad, giovane regista sudanese, nato a Beirut nel 1992 e attualmente esule a Nairobi. Conosciuto per il suo stile visionario, si è cimentato in varie opere che spaziano dai lungometraggi ai documentari, dai video musicali agli spot pubblicitari, in cui si fondono richiami della tradizione e delle atmosfere sudanesi con narrazioni contemporanee. Nei sui lavori ha spesso esplorato i temi dell’identità, della resilienza e della giustizia sociale, dando voce alle comunità emarginate e a quelle esiliate, come quella di cui oggi lui stesso fa parte. «Come artista in esilio - ci dice - molti progetti che realizzo ruotano attorno alla situazione del Sudan e cercano di amplificarla a livello internazionale. In questo processo, l’attivismo diventa inseparabile dalla mia espressione artistica. Questo film, in particolare, è un potente riflesso della storia del Sudan, delle lotte che ci accompagnano dall’indipendenza e dei decenni di disordini che hanno plasmato la nostra nazione per oltre cinquant’anni».
Ma come è nata l’idea di Khartoum?
«Nel 2021, Phil Cox, un regista britannico, ha incontrato Talal Afifi, produttore della Sudan Film Factory a Khartum, proprio mentre avveniva il colpo di stato militare che ha messo fine alla nostra rivoluzione contro il regime trentennale di Omar el Bashir. Insieme hanno deciso di creare un team di giovani talenti per realizzare un grande poema cinematografico sulla nostra capitale. L’obiettivo era di raccontare “una storia poetica sulla città di Khartum”, guidata da alcuni personaggi. Il progetto stava andando molto bene ed era quasi terminato, quando nel 2023 è scoppiata la guerra e Khartoum è precipitata nuovamente nella violenza e nella distruzione. A quel punto, siamo stati costretti a fuggire, aiutati dai produttori. Ci siamo ritrovati tutti insieme in esilio in Kenya e, con i protagonisti, abbiamo deciso di adottare una visione e un approccio creativo completamente nuovi, che hanno portato alla realizzazione del film così come si presenta ora».
Come avete scelto i cinque protagonisti?
«Abbiamo cercato di catturare il tessuto sociale diversificato di Khartum, mostrando come la città riunisca persone di etnie e retroterra differenti, accogliendole nella sua identità vibrante e multiforme. Almeno sino a questo ennesimo conflitto…».
Il vostro film ha un approccio stilistico molto originale. Che cosa ha ispirato questa scelta di racconto ibrido e quale messaggio volete trasmettere?
«Avevamo bisogno di un approccio creativo per raccontare le storie dei nostri protagonisti senza ricorrere a immagini dure o a scenari già visti dal pubblico. Ci siamo ispirati al teatro e alla tecnologia del green screen. Abbiamo capito che le storie e le emozioni erano dentro i nostri protagonisti e che serviva un modo creativo per farle emergere. Il nostro obiettivo era offrire una prospettiva profondamente personale e umanizzante sui nostri personaggi, andando oltre il semplice stile giornalistico del racconto».
Quali sono state le sfide più grandi nel realizzare Khartoum?
«I cineasti in Sudan affrontano numerose sfide, dalle pressioni sociali e familiari alle restrizioni governative e alla resistenza della comunità. Un esempio significativo è accaduto a Omdurman, dove abbiamo incontrato ostilità da parte della popolazione locale mentre filmavamo con i bambini. Erano contrari alla nostra rappresentazione dei ragazzi di strada, temendo che potesse dare una “brutta immagine” del Sudan, il che ha portato a un confronto acceso e ha evidenziato le difficoltà nel documentare questioni sociali delicate. Poi è scoppiata la guerra e allora tutti noi abbiamo temuto per la nostra vita in più di un’occasione».
L’esperienza del conflitto e quella dell’esilio hanno lasciato tracce anche a livello personale?
«Oggi, una delle più grandi sfide è riscoprire me stesso e mantenere viva la passione che mi rimane. Finanziarie i miei progetti è un’altra difficoltà enorme. Però, oltre ai vincoli economici, il peso emotivo è immenso. È facile sentirsi frustrati o irritati: queste difficoltà psicologiche, unite all’incertezza dell’esilio, rendono ancora più arduo alimentare ed esprimere la creatività».
Che cosa ha significato vincere il prestigioso Peace Award alla Berlinale?
«Per me, vincere significa ispirare gli altri. In questi tempi difficili per il Sudan, è fondamentale mantenere viva la speranza e ricordare alle persone che non sono sole o dimenticate. Rappresentare il Sudan su un palcoscenico globale e ricevere il Peace Award è più di un semplice riconoscimento: è un messaggio di resilienza e un simbolo di speranza nel momento in cui ce n’è più bisogno».