mercoledì 18 febbraio 2015
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​«Il mondo non perirà per la mancanza di meraviglie, ma per la perdita della meraviglia!». Questo era il timore più che fondato che lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton esternava nei suoi Paradossi di Mr. Pond. Si può tranquillamente affermare che questa legittima preoccupazione non ha motivo di sussistere finché vivrà un artista come Slava Polunin che ha creato dal 1993 uno spettacolo che nasce dai sogni e dalle fiabe, al confine tra vita e arte, che sfugge a qualsiasi definizione ma che, come lui stesso afferma, «può aiutare gli adulti a tornare fanciulli e a recuperare quel perduto stupore»: Slava’s Snowshow. Accolto con entusiasmo in Italia per l’ennesima volta e ospitato al Teatro Argentina di Roma da oggi fino al 1° marzo, è considerato un unicum nel genere circense, un’opera geniale che ha da subito travalicato persino i pur dilatati recinti del nouveau cirque. All’unanimità è stato definito un capolavoro che fonde il dramma con la risata, il reale col surreale, la crudeltà con la tenerezza, in pratica un tuffo nella poesia, magia, fantasia e frenesia ludica che raramente capita di vivere, insomma un classico del teatro del XX secolo visto in più di 30 paesi, 100 città e migliaia di volte da oltre due milioni e mezzo di spettatori e che ovviamente ha fatto incetta di premi, dal 1994 col Time Out Award a Londra fino al Drama Desk Award del 2005 a New York. Ma il creatore di tale ammirevole viaggio onirico resta, nonostante gli universali riconoscimenti, di una semplicità e spontaneità disarmanti e lo dimostra quando così ci confida: «Per me il teatro è come l’infinito, c’è di tutto: la felicità, la paura, ogni sentimento. È il mio modo di avvicinarmi al cielo». Ma prima di aspirare alle vette artistiche Slava Polunin, classe 1950, è partito con grande umiltà dalle foreste, i campi e i fiumi di un piccolo e sperduto paesino russo, Novosil’, nella provincia di Orël, dove amava costruire piccole città di neve e organizzare esilaranti feste coi suoi amici. All’età di 17 anni si trasferisce a San Pietroburgo (all’epoca Leningrado) per assecondare i desideri di sua madre che lo voleva ingegnere; ma l’aspettativa materna resterà presto disattesa perché si iscrive a una scuola di mimo e di lì a breve, prendendo spunto dalla tristezza poetica di Leonid Engibarov, dalla raffinata filosofia di Marcel Marceau e dall’umanità e dalla comica amarezza dei grandi film di Chaplin, dà vita ad “Asisyai”, il suo clown ironico e lirico, meditabondo ed esitante, con un nero sfumato al posto dei tondi bianchi intorno agli occhi e alla bocca, vestito di una tuta larga e trasandata gialla e un paio di soffici pantofole rosse. Un personaggio, il “clown giallo”, che a tutt’oggi affascina, diverte e commuove coi suoi “gesti non finiti”, interrotti, congelati come da un improvviso pensiero e caratterizzato da quell’eccentrica pantomima battezzata dallo stesso Slava con una spiazzante definizione: «Idiozia espressiva». E così ancora oggi Polunin si definisce: «Idiota espressivo», mentre tutto il teatro da tempo lo acclama come il più grande clown del mondo, il numero uno nella sua arte. Un’arte che, come lui stesso ama ripetere, «nasce dal cuore per arrivare al cuore».
Al di là di questa riflessione romantica e naïve, si tratta davvero di un universo artistico difficile da riassumere, che sfugge a qualunque definizione univoca, come ci conferma Slava nel regalarci la sua metafora della mela: «Se prendiamo una mela, un bambino dirà che è molto buona da mangiare, un bruco dirà che è la sua casa ed Eva dirà, invece, che è molto seducente. Pertanto non si può vedere la mela da un solo punto di vista. Qui, in questo spettacolo ci sono le risate per i bambini, le lacrime per i più anziani e le novità per i più giovani». Ma si può, comunque, intravedere un leitmotiv nello spettacolo: il gioco dei contrasti. C’è paura, disorientamento che sfociano, però, in gioia incontenibile, trovate poetiche che nascono e muoiono fino a sciogliersi in un movimento di danza lenta da plantigradi. Uno spettacolo che rivoluziona il circo e travolge il teatro, con il pubblico che mareggia, sobbalza, urla fino a diventare ostaggio di Slava e dei suoi clown, ma soprattutto prigioniero di una fantasia ascesa al potere; spettatori imbrigliati in una ragnatela che cresce, si gonfia e dilaga, o incantati da una nevicata che può essere dolce e leggiadra come un abito da sposa o terribile, spaventosa e irruente come la bufera del finto finale. E dopo la tempesta arriva… la quiete? Niente affatto! Palloni enormi, dal diametro di due metri, invadono la platea, volteggiano, precipitano, in un gioco al rimbalzo che sembra non finire mai. E lui, Slava, l’artefice di questo ribaltamento dionisiaco, a godersi, a bordo palco, stavolta da spettatore incantato, l’esaltazione di grandi e piccini. E quando gli chiediamo impunemente di salutarci con un gesto da clown, lui ci dà una lezione di vita con un semplice e umile: «Mi vergogno!», seguito dalla sua innocente e struggente risata.
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