venerdì 3 settembre 2021
Una retrospettiva al Museo del Novecento sull'artista che aderì convintamente al fascismo e venne poi ostracizzato nel Dopoguerra, ma che resta ancora oggi “necessario”
Una immagine di Mario Sironi negli anni Trenta

Una immagine di Mario Sironi negli anni Trenta - .

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Mi domando spesso quanti, tra i collezionisti di arte italiana, trascorsi i decenni delle scomuniche ideologiche, si siano pentiti di non aver mai acquistato un’opera di Mario Sironi perché su di lui, almeno fino alla fine degli anni Settanta, pesava ancora la damnatio memoriae del “fascista”, anzi del pittore fascista per eccellenza. Mi sono anche chiesto se – alla maniera dei fenomenologi – non si possa applicare a Sironi una sorta di epochè con due parentesi che liberino temporaneamente la sua opera da ogni ipoteca politica e ideologica. Guardarlo, se proprio si vuole, a partire da una prospettiva che non lo metta immediatamente sotto il giogo fascista.

Una proposta ab absurdo, d’accordo, ma può aiutarci a capire come in Italia il passato, quello dell’ultimo secolo, continua a non passare, se è vero che gli stereotipi di destra e sinistra si ripresentano a ogni elezione politica con elettori che sembrano ragionare con gli schemi di un secolo fa. Oggi si può fare una mostra di Sironi al Museo del Novecento a Milano saltando a piè pari la questione dell’ostracismo verso di lui e facendo finta che ormai sia acqua passata, come intitolò Margherita Sarfatti un suo libro “postfascista”, dimenticando quanto Sironi abbia pagato fino alla morte quella “epurazione”. Negli anni 50, stanco di questo, svuotò il suo atelier vendendo in blocco alla Galleria di Eric Estorick in South Audley Street, a Londra, circa un migliaio di disegni e altre opere.

Mario Sironi, “Il molo” (1921)

Mario Sironi, “Il molo” (1921) - .

Dunque, sembra ovvio oggi leggere Sironi come «trasgressore delle regole imposte» – scrive la direttrice del Museo, Anna Maria Montaldo – forse per salvarlo dall’essere stato, onestamente e fino all’ultimo, un sostenitore non del regime in quanto tale ma dell’idea fascista di rinnovamento sociale e politico di un Paese che era uscito molto male dalla Grande Guerra. Montaldo aggiunge: Sironi, oggi, è un «artista necessario». Sono d’accordo. Nonostante le nuove tecnologie e gli epigoni delle avanguardie che coltivano anzitutto l’idea del successo e del guadagno facile e presto, nello stile del supercapitale che domina ormai il globo, avremmo proprio bisogno di un pittore che sappia parlare della statura umana con la stessa tragica e “monumentale” forza di Sironi.

Mostra calibrata, questa del Museo del Novecento (Fino al 31 marzo), frutto quasi di un sodalizio sardo: la direttrice è cagliaritana di origine, e l’editore del catalogo, Ilisso, ha sede a Nuoro. Sironi sardo invece lo fu solo nel primo anno di vita; il padre era lombardo e la madre fiorentina, e lui visse fino a 29 anni a Roma. Ma confesso che questa collaborazione fra sardi mi fa ben sperare: da anni vorrei vedere una vera retrospettiva di un altro grande artista dell’isola, il dorgalese Salvatore Fancello, che – enfant prodige – appena quattordicenne ebbe una borsa di studio per studiare all’Isia di Monza e fu precoce in tutto, rinnovando in modo geniale la scultura in ceramica e il disegno (lavorò nei laboratori di Albissola e Padova, espose alla Triennale di Milano, attirò l’attenzione di Edoardo Persico, e Gio Ponti usò le sue opere per le copertine di “Domus”), ma ahimè morì a soli 25 anni sul fronte albanese nel 1941, lasciando come ultima opera un grande bassorilievo in ceramica smaltata sulla Vittoria ancora oggi alla Bocconi e una produzione ancora molto da studiare (ma su cui l’editore Ilisso ha pubblicato varie e importanti monografie) e soprattutto da mostrare, anche se i suoi collezionisti privati ne custodiscono gelosamente le opere.

Mario Sironi, “La famiglia” (1927-1928)

Mario Sironi, “La famiglia” (1927-1928) - .

Torniamo a Sironi. Giustamente Elena Pontiggia, che cura la mostra e il catalogo, sceglie di puntare inizialmente la sua attenzione critica su due vocaboli chiave nel definire l’opera sironiana: sintesi e grandiosità. La poetica della sintesi è quella della compattezza delle forme e delle strutture che rendono una idea ieratica dell’uomo fondendo la statura antropologica e l’architettura degli spazi, dove le quinte urbane sono spesso paesaggi desolati di periferie, ma solidi e eterni come rovine di muri fossilizzati nella loro stessa origine, quindi non ruderi diroccati ma quinte di luoghi nietzscheani abitati da forme silenti. Troppo umane per avere un futuro. È una visione per così dire antifrastica, dove disperazione e aspirazione all’eternità confliggono in un equilibrio di cui Sironi è il motore immobile, il pantocratore pessimista, ma non arreso alla propria bile nera.

Mario Sironi, “L'abbeverata” (1929)

Mario Sironi, “L'abbeverata” (1929) - .

L’altro termine scelto dalla Pontiggia ha qualcosa che stride, non tanto perché nell’opera di Sironi non vi sia uno sguardo “grande”, ma grandiosità ha una sfumatura enfatica che non collima con Sironi, anche se si dà al termine il senso di una eroicità che resiste allo schiacciamento esistenziale di cui il pittore è una sorta di sismografo (la gravitas). Questioni di lana caprina? Può darsi, ma non ne sono persuaso. «Esige grandezza», scrisse Sironi, riguardo all’arte. L’arte deve fare grande e aspi- rare al grande. Ho citato altre volte una frase di Arturo Martini che parla del sentimento artistico degli egizi: «Riduci la Venere di Milo a venti centimetri, fa ridere. Lo Scriba egizio nelle stesse proporzioni resta di venti metri». La grandezza diversamente dalla grandiosità, non ha bisogno di esibire la propria misura, non è forma anzitutto apparente, perché resta tale in qualunque proporzione. E in effetti io credo che Sironi e Martini siano i nostri maggiori artisti della prima metà del Novecento. Più di Boccioni, grandissimo, più di De Chirico e Carrà, e stiamo parlando di pesi assolutamente massimi, più di Morandi e De Pisis, poeti della natura silente. Entrambi esprimono quelle due fondamentali misure: sintesi e grandezza.

Mario Sironi, “Paesaggio urbano” (1925-1928)

Mario Sironi, “Paesaggio urbano” (1925-1928) - .

Se stiamo al periodo delle scomuniche, Sironi fu respinto, per esempio da Argan, e tale restò ancora fin quando si fece la mostra del 1973 a Milano e anche dopo; eppure, nel 1969, per un’antologica a Firenze, Alfonso Gatto aveva intitolato il suo saggio nel catalogo «Sironi, il liberatore». Ci volle il 1985, con la mostra per il centenario della nascita, perché Argan sospendesse la censura e ammettesse la grandezza di Sironi (c’era però stata tre anni prima a Palazzo Reale la fondamentale mostra degli anni Trenta che sdoganò la ricerca sul Ventennio e le arti). Di Sironi si erano ben poco interessati i maggiori critici italiani, a cominciare da Venturi e Longhi. Ma, come ricorda la Pontiggia, lui fu la spalla più solida di Margherita Sarfatti nel promuovere il gruppo Novecento, s’impegnò molto anche per allestire le mostre di questa tendenza che certamente era gradita al fascismo ma che soltanto una certa ottusità potrebbe oggi rubricare fra l’arte fascista tout court.

Mario Sironi, “Cariatide” (gesso di studio, 1940 c)

Mario Sironi, “Cariatide” (gesso di studio, 1940 c) - .

Con gli anni e gli sviluppi del regime Sironi si mosse verso la pittura murale e, come nota la Pontiggia, furono sempre meno le mostre in cui partecipò con quadri nuovi, per lo più chi organizzava doveva attingere a collezioni private o pubbliche. Questa convinzione di aggredire il muro era certamente un primo segnale della sfiducia che Sironi maturò sull’arte nella sua dimensione “borghese”, o da cavalletto, mentre la parete lo riportava all’arte civile del passato, medioevale o rinascimentale. In mostra lo straordinario cartone preparatorio per l’affresco L’arte fra le Arti e le Scienze del 1935 alla Sapienza, (che qualche anno fa fu al centro di polemiche per i simboli del regime ripristinati rimuovendo i veli che li avevano coperti).

Mario Sironi, “Composizione (cavalli in fuga e caduto)” (1942)

Mario Sironi, “Composizione (cavalli in fuga e caduto)” (1942) - .

Ma se si osservano le fasi mature e poi più tarde di Sironi, quelle postbelliche, quando il peso della colpa lo investì al di là del giudizio obiettivo sulla sua opera (anzi impedendolo), ci si accorge che accadde qualcosa di simile, ma per ragioni diverse, a quanto Arcangeli vide in certe opere di Morandi degli anni Trenta, le cui bottiglie, un tempo solide e ieratiche come le forme silenziose di Piero della Francesca, avevano cominciato a mostrare contorni tremuli e masse cromatiche più nervose (per Arcangeli era segno di incertezza esistenziale, e Giorgino gli tolse il saluto); così, nel dopoguerra, mentre Sironi resta ferito dalla vita – Rossana, la figlia diciottenne si suicidò nel 1948 – e dall’“esilio” civile, così anche le sue strutture si spezzano, franano, diventano caotiche. Si veda la tempera per le Laudi di Jacopone del 1947, ma anche il Paesaggio urbano del 1952 o quello con case del 1955 c. o l’ultima opera, l’Apocalisse del 1961.

Mostra retrospettiva, dunque, ma senza addentrarsi troppo nelle annosa polemica, che comincia con l’Autoritratto a matita del 1903, e si dipana lungo i vari periodi – futurista, espressionista ( Lo sbarco, 1916), metafisico e antigrazioso allo stesso tempo ( Manichino, 1919), e poi i paesaggi urbani (fra cui opere note come Sintesi , La cattedrale e Il molo del 1921, e così via fino alle opere dove il peso della figura umana e del mondo in cui abita delle quinte monumentali o periferiche diventa preponderante (ma forse è il primo segno del dubbio, che porta a rendere più compatte le forme, sotto un cielo plumbeo che prepara il decennio successivo e la fine di un’epoca).


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