Quattro luglio 1914. I cannoni della guerra stanno per tuonare in Europa. Ma, a cinquanta chilometri da Londra, in una cornice che pare ignorare quelle fosche premonizioni, volano le ultime stelle filanti della Belle Epoque. Quel giorno, a Henley, sulle rive del Tamigi, Re Giorgio V, sempre impettito nelle sue uniformi d’imperatore delle Indie, ha un moto di stizza e si defila dandosi per indisposto. Si è verificato un evento inaudito. Un atleta italiano, il trentenne Giuseppe Sinigaglia, è venuto a strappare l’ambito titolo mondiale di canottaggio, nella specialità del singolo, distanziando di ben 250 metri, sulla linea del traguardo, il suo rivale, Colin Stuart del Trinity Hall di Cambridge. Un’umiliazione intollerabile, per la tradizione degli sport remieri britannici, dover cedere a un non anglosassone l’ambita “Diamond Sculls Cup”, la coppa in oro massiccio cesellato, realizzata sotto le insegne della Corona. Così, il tronfio sovrano “abdica”, per un giorno, e, fuori da ogni protocollo, impone alla moglie, la Queen Mary, di premiare, al posto suo, «quell’italiano», con il trofeo della Royal Regatta che si disputa dal 1844. Nove agosto 1916. Sono trascorsi due anni da quell’epica disfida vinta da Sinigaglia, il baffuto
Sina, il «gigante buono», lo sciupafemmine di Como, che aveva attraversato la Manica, da solo, per venire a gettare scompiglio nel clubbino dell’aristocrazia sportiva inglese. Il tenente dei Granatieri, senza mai dimenticare i colori della sua società, la gloriosa “Canottieri Lario” di Como, che teneva cuciti nell’anima, ora combatteva sul Carso la cruenta battaglia per la conquista di Gorizia. E, da guerriero del remo, tempratosi alle più grandi lotte, si lanciava all’assalto dell’ultima e suprema vetta, la Cima 4 del Monte San Michele. Non fu falciato da una sventagliata di mitra degli austroungarici, quel giorno. No, la verità è un’altra, come si è scoperto solo di recente, ossia a un secolo esatto dai fatti. L’ufficiale comasco, al comando di un plotone di arditi, fece breccia nella trincea nemica, e, brandito un nodoso bastone, cominciò a menare fendenti sui soldati di Cecco Beppe, per esortarli ad arrendersi. Partì però un colpo, da uno di quegli irriducibili, e Sinigaglia crollò a terra, gravemente ferito. Nonostante ciò, volle continuare a dirigere, sul campo, le operazioni di consolidamento delle nostre posizioni. Trasportato, dopo molte ore, all’ospedale da campo di Crauglio, il campione del remo spirava il giorno seguente, il 10 agosto. È morto di setticemia, tra atroci spasimi, arso dalla sete e vegliato dai suoi fedelissimi compagni. Mentre agonizzava, supplicò che gli accostassero alle labbra le zampillanti sorgenti del suo Lario: «Datemi un po’ d’acqua, un po’ di acqua del mio lago!». Questa è la storia di un uomo, medaglia d’argento al valor militare, che Como ha celebrato con una bella mostra al Broletto, nella quale sono stati esposti cimeli - tra cui l’emozionante “Diamond Scull Cup” - che ricordano tutti i 20 sportivi della Canottieri Lario immolatisi nella Grande Guerra. Di Sinigaglia, emerge, da tante testimonianze documentarie, il tratto umano di un eroe solitario, di origini israelite: un temperamento generoso, da pioniere, al cui nome sono intitolati oggi sia l’antica società dei Canottieri, sia lo stadio che sorge davanti al bacino del lago. Non volle mai sposarsi, il
Sina, quasi presentisse di doversi sacrificare, come in una sorta di atto votivo agli dei della Patria. Nella sua carriera atletica, non vi fu peraltro soltanto il canottaggio: nel 1905, conquistò l’alloro nel campionato italiano di lotta greco-romana. Tra gli oggetti in mostra al Broletto, anche la sciabola di combattimento di un altro illustre lariano, risucchiato anch’egli nell’immane strage del conflitto mondiale, un secolo fa: l’architetto futurista Antonio Sant’Elia, amicissimo di Sinigaglia, e visionario profeta della Città Nuova, stroncato da una mitragliata, a Monfalcone, il 10 ottobre 1916.
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