Simone Weil nel 1942 - archivio
Nell’aula di giustizia d’un Tribunale di cruciale importanza per la vita civile e politica italiana di questi ultimi decenni, quello di Milano, proprio sopra la scritta “La legge è uguale per tutti”, colpisce ancora, per la sua eccentricità rispetto a quella tradizionale (la donna bendata con la bilancia in una mano e la spada nell’altra), l’immagine d’una madre che tiene in braccio il proprio bambino e d’«uno sventurato che gli chiede soccorso». La ricavo dall’introduzione ( La giustizia di tutti) del libro del filosofo del diritto Tommaso Greco pubblicato di recente dall’editore Laterza e intitolato Curare il mondo con Simone Weil (pagine 142, euro 16).
Simone Weil: la straordinaria filosofa francese scomparsa a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford, vicino Londra, il 24 agosto 1943, che fu allieva di Alain e ammirata da Albert Camus (il quale ne promosse dopo la morte l’opera), passata da posizioni anarchiche e di marxismo eterodosso (fu capace di scontrarsi anche con Lev Trockij) a quelle d’un cristianesimo radicale e senza compromessi, di disposizione mistica: in una direzione eguale e contraria, se si vuole, a quella che seguirono invece molti suoi contemporanei, la maggior parte dei quali finiti poi dentro l’atroce illusione stalinista, non senza tragiche conseguenze personali. Un’immagine, questa del Tribunale di Milano, che sintetizza felicemente il punto d’approdo del percorso di riflessione di Simone Weil intorno ai temi del diritto, della giustizia, della carità e della cura.
A monte di tutto il discorso - Greco lo sottolinea più volte- la domanda provocatoria di Glaucone a Socrate nel II libro della Repubblica, a cui Weil, che la prende molto sul serio, si prova a rispondere. Questa: perché essere giusti? E poi: «Quanto siamo capaci di essere giusti per sincero amore della giustizia, e non invece per i vantaggi che ne derivano oppure per gli svantaggi che vogliamo evitare»? Glaucone ne è convinto: se si vuole essere sicuri che il giusto ami davvero la giustizia, bisogna fare in modo che essa «sia nuda», che cioè il suo esercizio non sia legato ad alcun vantaggio, neanche quello traducibile in meri «termini di reputazione e prestigio». La provocazione di Glaucone, per mettere Socrate «alle strette», non teme il paradosso, ma Weil, che fa di Socrate uno dei suoi eroi concettuali, non esita a convenire sul fatto che il fratello di Platone ci dica «le cose essenziali sulla natura della giustizia: « Essere giusti, infatti, vuol dire essenzialmente questo: spogliarsi di ogni potere, rinunciare alla possibilità di esercitare la forza che possediamo».
Il vero punto di svolta del discorso di Weil, contro Nietzsche e il suo Anticristo, sta nella scoperta e nella valorizzazione della «debolezza»: «Se la forza è imparentata con il male, l’unico modo di uscire dal suo dominio è di acquisire appunto la condizione del debole. È a partire dalla debolezza che si può ritrovare il bene, ed è da qui che bisogna muovere per mettersi sulla via della giustizia». Se le cose stanno così, la giustizia non può avere niente a che vedere con l’uso della forza (via, dunque, la spada): tema che Greco sviluppa in molte pagine, mostrando come la posizione di Simone Weil si trovi agli antipodi di quella di Carl Schmitt.
Ma non può nemmeno essere identificata col diritto: se è vero che Weil respinge un modo di pensare rivendicativo, basato cioè «sulla pretesa del riconoscimento delle proprie ragioni, dei propri interessi, dei propri valori», per sposarne un altro, fondato «più sulla rinuncia che sulla rivendicazione, più sulla diminuzione delle proprie pretese che sulla loro affermazione», che ravvisa in Cristo la figura che «ci invita a ripetere il gesto di riduzione del proprio io che è all’origine dell’atto con cui Dio ha creato il mondo».
In vista d’una giustizia per nulla cieca (via la benda) e che rinunci, a vantaggio del debole, a metodi di astratto bilanciamento (via la bilancia). Il libro di Greco è ricchissimo di molte altre sollecitazioni. Ci si limita qui a segnalare l’ultimo intenso capitolo, “Itinerari della mitezza”, in cui si mette a confronto Weil con Norberto Bobbio, come lei nato nel 1909, due pensatori che non potrebbero essere più diversi tanto per la vita quanto per il pensiero, ma che s’incontrano all’improvviso proprio in riferimento a una virtù, la mitezza, di cui il filosofo fece l’elogio nel 1993: Simone Weil appunto, ancorata «al piano metafisico e religioso», e Norberto Bobbio, «convintamente laico e aderente al mondo fenomenico».