L’attuale non è crisi di una formula politica, ma della politica come tale. Si potrebbe dire una crisi sistemica, che dà la (fondata) sensazione che il vecchio schema nazional-partitico abbia fatto il suo tempo, se non per chi intenda occupare a proprio vantaggio lo spazio spettacolare della politica piuttosto che occuparsi realmente della cosa pubblica. Un macrofattore della crisi della politica in senso tradizionale è quella trasformazione in atto dell’assetto globale del mondo che chiamiamo "globalizzazione". Fenomeno reso possibile, anzi inevitabile, dall’unificazione mondiale che l’attuale potenza tecnologica sta realizzando di fatto, come si evidenzia a livello informatico e comunicativo, finanziario ed economico. La globalizzazione tecnologica ne induce anche una culturale. Esiste, infatti, una forza culturale della globalizzazione, alla quale forse non si presta la debita attenzione; cioè il suo apparire come realizzazione straordinaria dell’aspirazione moderna a un efficace e totale universalismo: trionfo dell’universale tecnologico come nuova mondialità, che sopraggiunge paradossalmente nel tempo della sfiducia tipicamente postmoderna in tutti gli universali, siano essi metafisici, antropologici, etici o politici. Vittoria postuma, si direbbe, della cultura illuminista "politecnica", secondo la quale religioni, metafisiche, etiche, ideologie politiche sono retaggi di una cultura arcaica che divide gli uomini e impedisce l’avanzare dell’umanità, mentre solo le scienze e le tecniche uniscono e creano progresso, unità e pace.
E questa non è letteratura, ma è per esempio il contenuto manifesto del programma ufficiale europeo di finanziamento della ricerca superiore per i prossimi 18 anni, denominato appunto Horizon 2020 nel quale a stento rientra la ricerca sociale e in cui è totalmente assente quella in senso lato "umanistica"! Certamente la globalizzazione apre ampi inediti spazi di trasformazione e prepara nuovi scenari sociali, in cui stati e nazioni è indispensabile che trovino la loro collocazione. Ma ciò esige anche un’interpretazione del grande fenomeno che non sia a sua volta solo tecnica, ma anche culturale e politica. Un dato di fondo da considerare è, ad esempio, che la tecnologia contemporanea, a motivo della sua componente scientifica, i suoi accelerati aggiornamenti, le sue esigenze organizzative, i suoi impegni finanziari, ecc., comporta oggettivamente un’eccezionale concentrazione di potere, in termini sia di risorse materiali, sia di risorse umane. La tecnologia avanzata non ha carattere "democratico"; se si diffonde nel mondo, diventando fruibile anche dalle masse, è nel suo principio inventivo, organizzativo e produttivo ciò che di più élitario e gerarchico esista; molto più simile a un corpo militare specializzato che a un’aula parlamentare. È opportuno non nascondersi il fatto che le grandi holding tecnologiche amano di più la finanza che l’economia, le lobbies che i partiti, ecc., in breve, più la tecno-crazia che la demo-crazia. E questo prima di essere una scelta etica e politica è una scelta funzionale. Non è un segreto per nessuno che il lavoro di lobbing è semplicemente fondamentale per la scelta e la gestione del governo statunitense. Non è difficile intravedere cose di questo tipo nel rapporto tra istituzioni internazionali e singoli Stati europei, tra singoli Stati e imprese multinazionali, tra lobbies nazionali e governi, e via dicendo. La globalizzazione apre scenari e spazi, ma non "gratis". La politica degli stati nazionali sperimenta ormai quotidianamente di trovarsi in misura crescente decentrata. I politici lo sanno e dovrebbero porre al centro l’interrogativo su che cosa significhi allora fare politica in tali nuove condizioni; se non lo fanno è perché preferiscono (per piccoli calcoli di cui fanno pagare il prezzo alla gente) stare nel presente come risultato del passato, piuttosto che come preparazione del futuro. Ma anche la cultura di un Paese dovrebbe interrogarsi su quali sono oggi le reali "categorie del politico". Credo che un punto teorico decisivo sia definire a che cosa si debba attribuire il valore di "universale" condiviso, condivisibile e decisivo per la convivenza.
Se, in buona sostanza, questo vada attribuito alla tecnoscienza, condita con un po’ di teoria dei diritti umani, oppure vada reperito anzitutto nella cultura civile di un Paese. L’universale antropologico è meglio rappresentato da quello astratto dei diritti umani e da quello omogeneo tecnoscientifico oppure da quello concreto delle culture storiche, che tessono la vicenda vissuta di un popolo, delle sue tradizioni, delle sue forme di vita, dei suoi stessi conflitti e delle sue riconciliazioni? Un universale, dunque, non separato dalle identità storiche concrete, dai patrimoni di valore orientativi dell’esistenza personale e collettiva, dalle forme di senso e dalle pratiche condivise. Realtà guardate con sospetto dalla mentalità tecnocratica e comunque marginali per la sua politica. Realtà di riferimento essenziale, invece, per una democrazia, che trova nella società civile, e non nelle funzionalità tecnologiche, il fondamento reale della sua legittimità. D’altra parte, una politica che voglia restare democratica nell’oggi deve ripensarsi in modo realistico (non demagogico e non ideologico) nel contesto di globalizzazione. Forse è questo il vero nodo (scorsoio?) della democrazia contemporanea.