giovedì 23 marzo 2023
Virtuale e metaverso suggeriscono una nuova esperienza del reale che prescinde dal corpo. Una questioen che interroga teologia e antropologia. La riflessione del filosofo
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Il testo che segue è estratto dal libro del filosofo Adriano Pessina L'essere altrove. L'esperienza umana nell'epoca dell'intelligenza artificiale (Mimesis).

L’introduzione dell’intelligenza artificiale e del mondo digitale sembra avere un potere, per così dire, retroattivo sulla concezione di noi stessi e sulla nostra collocazione nel mondo. Al di là di scenari, utopici o distopici, è nella pratica quotidiana della rete che si palesa, per così dire, la potenza teorica del platonismo. Infatti, come dimenticare che è proprio nell’infosfera che ci si può liberare dei limiti e delle ristrettezze del corpoprigione per sperimentare il fascino della pura relazione e il trionfo del mentale rispetto al corporeo? Non certo un’anima disincarnata, che ha attraversato il confine della morte, ma un uomo disincarnato che superato la soglia del luogo e del tempo per esprimere sé stesso nello spazio del digitale, in compagnia di una ipotetica intelligenza artificiale. In fondo, oggi, essere cultori della differenza ontologica dell’uomo, della sua eccedenza spirituale, richiede di essere, paradossalmente materialisti, perché l’unicum dell’individuo non sussiste senza carne. Ed è dentro la carne, infatti che generiamo ed è dentro un grembo carnale che prendiamo forma.

Come non rileggere allora quanto scriveva Tommaso D’Aquino quando definiva la persona umana «questa carne, queste ossa, quest’anima» che sono ciò che costituiscono l’io, ognuno di noi. Non c’è esperienza umana senza carne: anche quella tecnologica, che pure proietta il nostro fantasma nell’etere, non può prescinderne, perché ne è la fonte impensata e in qualche modo dimenticata. Trascendenza e immanenza sono, di fatto, due termini che indicano il crinale che separa, unendoli, due differenti orizzonti che si spalancano nella duplice prospettiva della comprensione della realtà rispetto al suo significato ultimo. A prescindere dai dibattiti, non si può ignorare che la storia dell’Occidente, la sua temporalità, è costruita anch’essa su uno spartiacque, indicato da due ceppi che indicano un prima e un poi: due sigle latine, a.Ch.n e p.Ch.n, ne segnano i confini. Una sola storia, dunque, ma anche un limes, che indica il prima e il dopo la nascita di Cristo. Questa numerazione, a cui siamo assuefatti, pone una svolta nell’Incarnazione di Cristo, quel Verbum caro factum est che costituisce il senso dell’annuncio e dell’esperienza dei cristiani, ma che di fatto ha misurato, silenziosamente, tutta la storia dell’umanità, nel riconoscimento, nell’opposizione o nell’indifferenza. Il portato teorico dell’Incarnazione ha diversi aspetti su cui occorre brevemente soffermarsi, in chiave strettamente filosofica. Con la nascita di Cristo, che trova il suo senso ultimo nell’annuncio della sua morte e Resurrezione, si afferma non soltanto che il Dio della creazione entra personalmente nella storia umana, ma che in questo suo “farsi carne” si rende possibile la sua stessa rivelazione Trinitaria e la soluzione del significato enigmatico dell’espressione che vuole che l’essere umano sia creato a “immagine e somiglianza di Dio”. Enigma che prima di Cristo era reso evidente dall’impossibilità di dare un volto a Dio.

Lo spartiacque teologico è anche uno spartiacque filosofico, perché segna, teoricamente, più che praticamente, la fine di quell’impero platonico che diffidava della carne, considerata prigione di un’anima spirituale che ambiva a ben altra collocazione. E da lì, di seguito, a cascata, cambia per sempre la considerazione dell’essere umano, non più solo creatura ma egli stesso “figlio” del Dio che ora poteva essere chiamato Padre. E la carne malata cessava di essere maledizione e colpa, per diventare luogo dell’amore, della cura, della partecipazione della presenza di Dio. E persino l’altrove della vita, che Platone sognava come luogo dell’anima, si apre alla resurrezione dei corpi. Questa digressione teologica, che potrebbe essere ancor più dilatata, non può certo trascurare l’interpretazione opposta, che ha visto, nell’Incarnazione, l’annuncio della nuova consapevolezza dell’uomo di essere Dio a sé stesso e al mondo. L’incarnazione diventa, poi, per alcuni filosofi, la cifra dell’alienazione dell’uomo che consegna ad altro da sé e dal mondo ciò che invece gli appartiene: la signoria su tutta la realtà e la possibilità di un dominio emancipato da Dio, dalla natura e dallo stesso peso della storia toglie ogni forza ermeneutica a tutte le dottrine dell’altrove. Non si può, del resto, dimenticare la progressiva ondata di indifferenza metafisica che coltiva l’autosufficienza umana e la sua autonomia, segnata dalla banalizzazione del tragico annuncio nietzchiano della “morte di Dio”. Se la storia dell’Occidente può esgioia sere letta lungo questi crinali, l’affermazione della Presenza della Trascendenza nella storia, che è tesi propria dell’Incarnazione, si offre, però, come riconciliazione tra l’altrove e il qui e ora, cambiando radicalmente la prospettiva: il senso ultimo dell’esistere e dell’essere non è altrove e il qui e ora non è solo la prigione storica dell’umano.

Che cosa ha mai a che fare questa digressione teologico-metafisico col digitale? Perché l’epoca contemporanea introduce, di fatto, senza grande clamore e senza alcuna pretesa filosofica, un’era nuova, quella che potremmo definire l’epoca della disincarnazione dell’umano. Se infatti portiamo a sintesi quanto abbiamo finora cercato di delineare con la categoria dell’altrove, ci troviamo di fronte a una situazione nuova, in cui sempre più diventa rilevante ciò che non ha a che fare con la carne, cioè con la condizione corporea, fisica, dell’uomo, a riprova che per essere materialisti non è necessario riferirsi al primato del corpo. Infatti, per privare di significato lo spirito è sufficiente trasformare l’uomo in una macchina informazionale che, alla stregua di tutto ciò che appartiene alla categoria della materia, si connette e si relaziona senza implicare lo scoglio della sostanza individuale e della soggettività personale. Un essere umano ridotto a relazione non diventa un Dio, non è più nemmeno carne o corpo, ma pura connessione che si immagina di guadagnare il noi eliminando l’io, che nella tradizione teologica costituisce di volta in volta l’interlocutore del Creatore e l’amico del Fratello che rivela il Padre. Creare un uomo nuovo è un’impresa non facile, ma è una tentazione propria di chiunque coltivi il mito del self made man e che oggi salda i progetti trans e post-umanistici con le ricerche sempre più avanzate nei campi della biologia, delle nanotecnologie e nella stessa progettazione informatica e robotica. Un uomo nuovo capace di creare qualcosa che gli somigli, come un robot che lo affianchi nei compiti dell’esistenza e lo sostituisca in tutte le funzioni in cui l’io si senta esposto nella sua carnalità. L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. La pretesa di umanizzare la rete, di trasformarla in un nuovo strumento di evangelizzazione, di riempirla di significati etici e religiosi, di trasformarla in veicolo di miglioramento dei rapporti umani, sembra non considerare che l’altrove tecnologico resta e resterà un prodotto dell’uomo, disincarnato. La nostra epoca coltiva e sviluppa l’indifferenza nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non perché sia disincantata, ma perché è disincarnata e quindi sempre più incapace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione. Questa digressione, ovviamente, non legittima alcuna condanna della tecnologia, che ormai non si configura più nei termini della sfida, perché la sua familiarizzazione l’ha integrata nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, ma impone un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità.

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