Barbara Chase-Riboud tra sculture sue e di Giacometti - Barbara Chase-Riboud / Succession Alberto Giacometti
In oltre 60 anni di slanci della creatività a cavallo dell’Atlantico, ha plasmato centinaia di sculture, preferendo quelle di grande formato che combinano e intrecciano materie diverse. Ma la parabola di Barbara Chase-Riboud colpisce anche per l’intrecciarsi continuo di questo percorso con il talento di scrittrice di successo. Fin dagli anni Sessanta, dei celebri musei americani, come il MoMA di New York, hanno acquisito le sue “stele”, come quelle dedicate all’Africa, alla memoria della Tratta negriera, a Malcolm X. Come scrittrice, ha invece spaziato fra raccolte di poesia coronate da premi prestigiosi e romanzi divenuti bestseller tradotti anche in Italia, come La Rivolta della Amistad (Piemme), o La Sultana bianca (Mondadori). In Francia, il 2021 le ha regalato nuovi importanti riconoscimenti, fra cui il Prix Cino del Duca per l’arte, dotato di 100mila euro. Adesso, presso la Fondazione Giacometti, nel quartiere di Montparnasse, si può ammirare la mostra “Alberto Giacometti / Barbara Chase-Riboud. Standing women of Venice / Standing black woman of Venice” (fino al 9 gennaio), che mette i due scultori in dialogo. «Ho avuto una vita da romanzo, non posso negarlo», ci dice ridendo su una terrazza parigina, rievocando le “navi fatali” che dagli Usa, dove nacque (in Pensilvania) appena prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, l’hanno portata prestissimo verso l’Europa, l’Italia e l’Egitto, fino alla scelta di vivere a Parigi, senza mai dimenticare l’Africa come orizzonte d’ispirazione. Fra i progetti attualmente in preparazione, anche un’importante retrospettiva itinerante negli Usa.
Fin dagli anni Settanta, a credere in lei come poetessa fu Toni Morrison, futuro Nobel, scomparsa nel 2019. Una figura monumentale, quasi a metà strada fra scrittura e scultura…
Sì, era un monumento ed era monumentale. Ci amavamo e litigavamo come madre e figlia. Un anno, venne d’estate con i suoi due figli nel mio atelier di scultura d’allora, nella campagna francese, dove anch’io avevo i miei due figli. Un’estate intera di conversazioni senza fine, passeggiate, scrittura. Un’estate sublime, magica, su cui ho scritto due poemi diversi anni dopo. Quest’ambivalenza fra scultura e scrittura, è vero, se- gna la mia vita. Quante volte mi hanno consigliato di scegliere. Ma ho sempre avvertito una convergenza estrema fra le due, pur cercando di separarle nella pratica quotidiana. C’è una narrativa intrinseca nel semplice gesto di scrivere, come in quello di scolpire o modellare.
Scolpire è ancora un confronto un po’ eroico con la materia, come nel Rinascimento?
Con certe materie nobili, nasce una relazione strana e profonda. Se prediligo il bronzo, è per il suo carattere eterno. Già da giovane ero affascinata dalla monumentalità delle sculture egizie e greche, che tracciano una rotta privilegiata nell’odissea della sensibilità umana. Negli anni Cinquanta, ebbi la fortuna d’essere ammessa all’Accademia americana a Roma, potendo pure viaggiare in Egitto, in circostanze d’altronde rocambolesche, dato che m’imbarcai a Brindisi senza dir nulla ai miei, venendo poi ab- bandonata sul molo d’Alessandria d’Egitto dai miei compagni di viaggio. Ma è lì che mi sono entrate per sempre in mente le idee di monumentalità ed eternità che hanno cambiato la mia vita.
Negli scultori novecenteschi, resta una certa vocazione.
Certamente in alcuni, come nel caso di Alberto Giacometti. Per questo, ho accettato con gioia di vedere le mie sculture in dialogo con le sue. Le sue donne in piedi di Venezia accanto alle mie stele. Come me, aveva un debole per la scultura egizia. Ma quello che lo interessava era lo spazio vuoto attorno, dunque l’opposto rispetto a me.
Come lo ricorda?
Quando lo conobbi, ero giovanissima. Mi fu presentato dal fotografo Henri Cartier-Bresson e ricordo l’aspetto spoglio dell’atelier di Giacometti, in fondo a un vicolo cieco a Montparnasse. Un posto mai chiuso a chiave, il più miserevole che avessi mai visto in vita mia. Tutto era bianco in quella tana senza finestre. Ricordo soprattutto il suo modo d’apparire all’improvviso, come una presenza dal nulla, dondolando, con i capelli scompigliati, le sigarette, il fumo.
Il senso della memoria, così forte nelle sue stele e nei suoi romanzi, pare un orizzonte che vi accomuna, in chiave umanista…
Sì, ma non si comprende mai la memoria in astratto. In realtà, la si scopre soprattutto nell’intimità degli affetti. Così, almeno, è avvenuto per me, quando ho riletto le centinaia di lettere scambiate con mia madre fra il 1957 e il 1991. Una rilettura che ho iniziato la sera in cui Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Non sapevo che in quelle lettere scrivevo pure le mie memorie. Adesso che lei non c’è più, mi pare ancor più un’avventura incredibile. Ho pienamente capito che esiste una memoria che prorompe fuori dal corso d’una vita. La pubblicazione di quelle lettere si avvicina e sarà probabilmente il mio ultimo libro. Lo stesso discorso vale per le vicende storiche a cui ho dedicato tanta parte del mio lavoro, come la lotta contro la schiavitù e per i diritti civili degli afroamericani, o l’emancipazione delle donne, che ho trattato rievocando figure rimaste a lungo invisibili.
Un impegno che continua.
Sì, perché tutta la storia degli afroamericani è stata avversata da una sorta di antimemoria. Troppo a lungo, in America, si è cercato di cancellare un intero versante della storia mondiale. Quando ho iniziato la mia serie di stele su Malcolm X, non mi interessava prioritariamente tracciare un suo ritratto o abbracciare una causa politica, ma in primo luogo recuperare il profumo e il senso d’una memoria. Lo stesso come romanziera. Forse per questo mi sento pienamente in pace solo in città come Roma, dove le pietre offrono il tesoro della memoria. Lavoro non a caso con fonderie italiane. Quest’impegno, no, non può cessare, anche perché mi pare che l’opera di cancellazione sia oggi ricominciata.