Winston Churchill e Vittorio Emanuele III
A fine luglio del 1943, pochi giorni dopo la caduta di Benito Mussolini (sfiduciato dal voto del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio) e l’avvento del governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio, Winston Churchill scrisse, di proprio pugno, un telegramma per il re Vittorio Emanuele III che aveva tutto il sapore di un sonoro schiaffo. Un messaggio dal tono oltraggioso che aveva per oggetto la sorte dei prigionieri militari alleati nelle mani degli italiani, e che, se fosse pervenuto al destinatario, avrebbe potuto cambiare le sorti del conflitto, e non in senso favorevole agli inglesi. In quel momento, infatti, il regio governo di Roma stava accingendosi ad avviare i primi sondaggi per la firma di un armistizio con le forze angloamericane. Sebbene in ginocchio, e con gli Alleati ormai da alcune settimane sul suolo italiano, dopo lo sbarco in Sicilia del 10 luglio precedente, l’Italia e il suo sovrano avevano a cuore il proprio onore: prima di sedersi a qualunque tavolo, avrebbero preteso delle scuse dal primo ministro britannico. Il clamoroso retroscena, rimasto finora sconosciuto, emerge, a sorpresa, dall’Archivio federale di Berna, in ragione del ruolo decisivo svolto dagli elvetici in questa incredibile vicenda.
Ecco i fatti. Nel cuore della notte tra il 29 e il 30 luglio 1943, il ministro della Legazione svizzera a Londra, Walter Thurnheer, venne convocato d’urgenza dal ministro degli Esteri di Sua Maestà britannica, sir Anthony Eden. Il capo del Foreign Office, avvalendosi dei canali diplomatici di un Paese neutrale, pregava di avvertire il governo Badoglio che la Gran Bretagna nutriva grandi preoccupazioni per la sorte dei propri prigionieri, e di quelli di altri Paesi suoi alleati, che in quel momento si trovavano nelle mani degli italiani. I timori di Londra non erano infondati. In quel delicato passaggio storico, gravido di conseguenze per le sorti del conflitto, con l’Italia che si preparava a negoziare un armistizio con britannici e americani, si poteva anche supporre che i tedeschi, inferociti con i propri alleati italiani che avevano tradito, reclamassero, per vendetta, la consegna di tutti i prigionieri nelle loro mani. Ma il passo di Eden risultava complicato dal fatto che su di esso gravava un atto provocatorio del suo primo ministro, verso l’Italia. Il responsabile della politica estera inglese, infatti, consegnò a Thurnheer un telegramma personale di Churchill, per Vittorio Emanuele III. Il messaggio, oltraggioso nel tono, e del tutto irritua- le, recitava testualmente: «Il primo ministro al re d’Italia. Non aspettatevi pietà se consegnerete ai tedeschi i prigionieri nostri e [quelli] alleati ora nelle vostre mani. Churchill».
Si trattava di un vero e proprio boomerang. Un capo di governo si rivolgeva a una testa coronata - sia pure di una nazione in quel momento ancora nemica - con un linguaggio secco e perentorio, omettendo i titoli onorifici comunque dovuti a un monarca, e trascurando perfino di concludere il suo messaggio con un’espressione di saluto. Se Churchill riteneva di poter intimidire il Savoia in quel momento sul trono, aveva completamente sbagliato obiettivo. Vittorio Emanuele III era un anziano uomo, estremamente attento alle formalità dei cerimoniali, ed esigeva rispetto. Se non altro, perché regnava da ben 43 anni, e aveva condotto l’Italia a combattere, al fianco del Regno Unito e delle altre potenze dell’Intesa, durante la Prima guerra mondiale che era costata alla nazione una carneficina: circa 650 mila vittime. Quando il capo della Legazione elvetica a Londra, rientrato in ambasciata, avvertì il suo governo, ebbe la fortuna di avere come interlocutore uno statista navigato come Marcel Pilet-Golaz, ministro degli Esteri, che disinnescò la mina che gli era capitata tra le mani. Egli impartì subito precise istruzioni al rappresentante degli interessi stranieri della Legazione svizzera di Roma, Maxime de Stoutz, il quale si attenne alla lettera alle raccomandazioni ricevute. De Stoutz, infatti, informando il governo Badoglio del passo diplomatico di Eden, omise in un primo tempo anche soltanto di accennare all’esistenza dell’imperativo telegramma di Churchill al re d’Italia. Si limitò a riferire le parole di Eden, secondo il quale, in quel momento, era molto importante che nessun prigioniero del-l’Inghilterra, o di nazioni a essa alleate, fosse consegnato alle autorità tedesche, perché un fatto del genere avrebbe provocato una reazione nettamente ostile, da parte del governo e dell’opinione pubblica britannici.
A stretto giro, il ministro degli Esteri di Roma, Raffaele Guariglia, comunicò, prima verbalmente, e poi con una nota scritta fatta pervenire all’ambasciata svizzera in Roma, che «il governo italiano non aveva la minima intenzione di consegnare ai germanici suoi prigionieri di guerra britannici o alleati ». Rassicurazioni che Thurnheer inoltrò prontamente al sottosegretario di Stato agli Esteri inglese, il parlamentare conservatore Richard Kidston Law, futuro barone Coleraine. Soltanto in un secondo tempo, il capo della Legazione elvetica a Roma, Peter Vieli, comunicò a Guariglia, e al segretario generale del ministero degli Esteri, il tenore del telegramma di Churchill al re. Il 18 agosto, il ministero degli Esteri, inoltrò a Vieli una nota di risposta articolata, nella quale si affermava che il gabinetto Badoglio esprimeva tutta «la sua indignazione per il telegramma irriguardoso che il capo del governo britannico si è permesso indirizzare a S. M. il re d’Italia». Nel documento ufficiale, si ribadiva l’impegno dell’esecutivo a non consegnare in alcun modo prigionieri angloamericani ai tedeschi, fornendo una precisazione interessante. Il 'casus belli', è il caso di dire, che aveva suscitato la reazione d’inusitata durezza di Churchill, era accaduto dal 20 al 22 luglio precedenti, allorquando 2400 prigionieri alleati erano stati trasferiti nei campi germanici. Ma, puntualizzava nella sua nota il regio governo, si era trattato di detenuti di guerra «che erano stati catturati dalle forze militari tedesche e da questi lasciati in temporanea consegna alle forze armate italiane». Quanto al telegramma di Churchill al re, esso rimase per oltre vent’anni sepolto negli archivi della rappresentanza diplomatica elvetica a Londra. È praticamente certo che, seppure informato del senso del messaggio, il governo Badoglio tenesse il sovrano all’oscuro di un tale messaggio, per non compromettere l’avvio dei negoziati per l’armistizio. Soltanto dopo la morte di Churchill, avvenuta il 24 gennaio 1965, il ministero degli Esteri svizzero, avvertito dell’esistenza di questo documento, pregò la propria ambasciata di Londra di farlo pervenire all’Archivio federale di Berna. Da dove ora è uscito.