«Ma questa è
Traviata ». Primi accordi della sinfonia. Il sipario scompare in alto. Sul palco una stanza in perfetto stile ottocenesco. Una ragazza sul letto. Malata. Il dottore scuote la testa e se ne va. Una signora in platea guarda stupita la locandina. Pensa di aver sbagliato opera. Eppure sul programma di sala c’è scritto ben chiaro
Giovanna d’Arco. Eppure prima che si alzasse il sipario il sovrintendente Alexander Pereira era comparso in proscenio per dire che nel ruolo del padre di Giovanna ci sarebbe stato il giovane Devid Cecconi, arrivato a sostituire l’indisposto Carlos Álvarez. Nessuno sbaglio dunque. Solo che Moshe Leiser e Patrice Caurier hanno messo subito sul tavolo le loro carte. Quella che vedrete sul palco non è la Giovanna storica, sembrano dire con la prima immagine del loro spettacolo. Svelano il gioco. Quello che hanno pensato per raccontare l’opera di Giuseppe Verdi che ieri ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala. Seguita fianco a fianco in palco reale, dopo i battibecchi politici a distanza dei giorni scorsi, dal premier Matteo Renzi e dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia, al suo ultimo 7 dicembre da primo cittadino. Accolta da undici minuti di applausi. Niente Giovanna storica così come la ricordiamo dai libri di scuola o dai film in bianco è nero. D’altra parte nemmeno Verdi e il suo librettista Temistocle Solera erano stati fedeli alle vicende della santa francese. Ma avevano reinventato la storia per parlare di amore e dell’eterno conflitto tra padri e figli. Basta poco per capirlo. Inizia il primo atto e il popolo francese canta la sua oppressione. Ma il coro in scena non c’è. È una voce che si affaccia alla mente di Giovanna. Perché Leiser e Caurier portano in scena la storia di una ragazza che, in pieno Ottocento, presa da febbri e deliri rivive in sé le vicende di Giovanna e di re Carlo VII. Espediente furbo per non dover mettere in scena un Medioevo polveroso da vecchia opera lirica. Ma anche per non doversi sporcare le mani con l’attualità fatta di Daesh, proclami a favore della guerra santa, attentati e conflitti tra Oriente e Occidente. Teatro blindato. La paura del terrorismo ha bussato alla porta della Scala. Polizia schierata in piazza, cecchini sui tetti. Metal detector nel foyer con il pubblico che si è messo pazientemente in fila per i controlli. Inizia l’opera e la guerra c’è anche sul palco. Un brivido. Sangue, teste tagliate. Ma non pensi a una Giovanna jihadista. È vero, Verdi racconta una ragazza che combatte per la sua patria forte di un’investitura divina, ma dipinge soprattutto una donna la cui mente è confusa, in preda a voci e visioni. Visioni che si materializzano sul palco con videoproiezioni e diavoli, quasi fumetti che un po’ fanno sorridere il pubblico. I momenti intimi sono la parte più riuscita dello spettacolo, con le scene sghembe, fuori asse come la mente di Giovanna, di Christian Fenouillat e i costumi di Agostino Cavalca tra Medioevo e Ottocento. Ad arrivare dritto al cuore e lo sguardo perso di Giovanna. Voci e visioni. Lei guarda il pubblico dritto negli occhi. Uno sguardo che solo chi ha provato l’alienazione da sé può capire fino in fondo. Anna Netrebko, trionfatrice della serata tra gli applausi entusiasti del pubblico, arriva al cuore nei panni della Pulzella. Con il suo sguardo, con la sua voce intensa e musicalissima. Verdiana perché sa raccontare i tormenti dell’uomo. Il dolore che grida, ma anche l’affidamento e la speranza. Sola nella sua stanza ci racconta qualcosa di noi. Certo sul palco tutto è frutto della mente della ragazza: il re tutto d’oro, al quale offre un’intensa interpretazione Francesco Meli, è il nemico inglese; la battaglia e la cattedrale di Reims che sale dal basso e scatena i flash dei telefonini. Qui Giovanna riceve la croce da un Cristo che fa sobbalzare qualcuno sulla sedia. Momento che, però, lascia il segno perché quella croce non è il vessillo per combattere in nome della fede, ma il destino di Giovanna che di lì a poco sarà caricata della sua croce, ovvero il tradimento del padre. «L’amaro calice io bevo», canta Giovanna nel momento più intenso mentre i registi mettono la ragazza su un rogo (non previsto in partitura) fatto di mobili della stanza che si accendono con fiamme virtuali. Iconografia storica rispettata. Verdi un poco tradito. Riccardo Chailly, festeggiato già al suo ritorno sul podio all’inizio del secondo atto e salutato da calorosi applausi a fine serata, trasfigura la musica e ci mette di fronte a noi stessi. Il direttore milanese crede molto in questa partitura, per alcuni un Verdi minore, in realtà pagina che può stare a fianco dei capolavori della maturità. Mancava alla Scala da 150 anni. Chailly l’ha restituita in tutta la sua grandezza: non ritmi risorgimentali a suon di
zum pa pa, ma un Verdi intimo, in trasparenza. Il direttore fa di
Giovanna il diario di un’anima e anche quando la regia porta sul palco scompiglio e violenza, tentando una lettura politica, riconduce tutto a una dimensione interiore che interroga e scuote. Perché a venire in primo piano è la verità di chi si interroga su come portare la fede nella vita. Giovanna si lancia nell’ultima battaglia. Scoppia la tempesta. Lei soccombe. Il coro di Bruno Casoni, quarto protagonista dell’opera, la accompagna nel suo ultimo viaggio. Con un canto che, davanti a una cielo ormai sereno, si fa pietà e promessa di pace per un’anima purificata dal dolore, santa non perché guerriera ma perché ha vissuto sino in fondo la sua vita, attraversando le tempeste del mondo e dell’anima. Lo racconta, ancora una volta, Verdi, nostro contemporaneo.