martedì 13 aprile 2010
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Una diaspora silenziosa, una pulizia etnica in sordina, un esodo causato da una persecuzione implicita. La condizione non rosea dei cristiani a Sarajevo è sempre più quella di una minoranza, come racconta il cardinale Vinko Puljic, dal 1990 arcivescovo della capitale della Bosnia-Erzegovina, allo storico Roberto Morozzo della Rocca, in un denso libro-intervista pubblicato dalle Paoline e dai prossimi giorni in libreria (Cristiani a Sarajevo, pagine 152, euro 13,00). Denso per il peso specifico delle parole del porporato e dell’analisi del docente, che insegna storia contemporanea all’Università Roma Tre ed è un appassionato studioso dell’Europa orientale: «Prima della guerra i cattolici a Sarajevo erano 60mila, adesso sono 13mila: c’è stata una sorta di pulizia etnico-religiosa. E l’islamizzazione scoraggia i cattolici, che tendono ad andarsene». Una situazione estesa a macchia d’olio in Bosnia-Erzegovina, dove si contavano 860mila cattolici prima della guerra scoppiata nel ’92: ora sono scesi a quota 420mila, passando dal 17 al 9% della popolazione: «Migrano in Croazia, in Germania e negli Stati Uniti», riferisce lo storico. Aumentano invece i serbo-ortodossi, passati dal 33% al 37%, ed esponenzialmente i musulmani, che nel 2005 hanno superato il 50% degli abitanti del Paese balcanico. Un secolo fa, contava una popolazione di 52mila persone che parlavano 13 lingue differenti; i cattolici – annota Morozzo – erano quasi il 35%, poco meno dei musulmani, mentre gli ortodossi superavano il 16% e gli ebrei il 12%. «Storica e simbolica vetrina di multietnicità, multiculturalismo e multiconfessionalismo» – così la definisce lo studioso –, oggi Sarajevo non si può più definire una «città pluralista marcata dalla più larga tolleranza», visto che quasi il 90% degli abitanti sono musulmani e restano soltanto «piccole comunità di cattolici, ortodossi ed ebrei. Altri sono atei», riferisce l’arcivescovo, che è anche presidente della Conferenza episcopale della Bosnia-Erzegovina, denunciando: «Ai visitatori stranieri, alla comunità internazionale si dice: "Siamo aperti alla convivenza". Ma si vede poi che non c’è spazio per la convivenza, specialmente per quanto riguarda il lavoro, l’amministrazione, l’informazione. È tutto in una sola mano». I cristiani non ricevono alcun appoggio per rimanere. E gli aiuti internazionali arrivano, ma «non ufficiali o dagli Stati: solo dalla gente comune e da enti privati. L’Europa, quando vede un cattolico, non aiuta. Dalla Germania ci sostengono solo le fondazioni della Chiesa cattolica, Renovabis e Kirche in Not. Dopo la guerra, c’è stato l’aiuto di tante piccole comunità e associazioni italiane». Ma chi sono i musulmani in Bosnia-Erzegovina? «Non sono arabi, ma slavi islamizzati – spiega il cardinale –. Con l’ultima guerra si è creata la loro identità in senso nazionale. Ma anche tanti musulmani radicali provenienti dai Paesi arabi portavano denaro, aiuti e insieme costumi e ideologie. È nato così un radicalismo». Situazione non negativa, secondo Puljic, fino a quando non genera tensioni: «Il male è quando si contrappongono ai cristiani. Quando vivono da veri musulmani, grazie a Dio, sono credenti. Il problema sorge quando pensano la loro identità contro gli altri». In questo scenario le difficoltà pratiche si moltiplicano, per i cattolici: a parte il fatto che le domande per aprire una chiesa possono attendere un decennio prima di avere una risposta, e gli episodi di aggressioni al clero e vandalismi nelle chiese, in ambito sociale l’esistenza è resa abitualmente problematica da «lavoro negato; assistenza sanitaria pure, di fatto, negata; risorse economiche pubbliche, assistenza sociale, giustizia e sicurezza solo per la parte islamica della popolazione», osserva Morozzo della Rocca. Nella vita quotidiana, tuttavia, musulmani e cristiani cercano anche di trovare equilibri fatti di contatti e di dialogo spicciolo, informale e semplice, aperto e cordiale. Come un saluto al cardinale, ad esempio, quando a piedi raggiunge la cattedrale. Oppure il tassista islamico – pochi i radicali fra loro – che nota il clergyman e dice: «Sacerdote? Avanti, non c’è problema». Eppure c’è chi fomenta il clima di tensione: media e politici, secondo l’arcivescovo di Sarajevo, «manipolano i sentimenti popolari. Un centro culturale ha stampato più di 100mila copie di un libro contro Gesù. Quando proclamiamo la nostra fede, dobbiamo farlo non contro gli altri». Il cardinale Puljic resta un testimone di pace, convinto di una possibile convivenza; non si arrende, anzi invita la gente a riappriopriarsi di quei comportamenti scritti nel Dna da secoli: «Da noi esiste il rispetto per il vicino, perché è più vicino di un fratello: aiuta quando si è nel bisogno». E l’auspicio si estende anche a un maggiore protagonismo dei cattolici nell’arena sociale, nonostante i numeri esigui, per essere evangelicamente come lievito nella pasta: «Voglio incoraggiare il mio popolo a non essere inerte: create con la vostra fede! Bisogna influenzare di più la sfera pubblica con la fede. Non solo in Bosnia-Erzegovina, anche in Europa».
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