domenica 22 novembre 2015
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«Sono come appaio». Esordisce così Chissà se lo sai (Piemme, pagine 220, euro 17,00), autobiografia di Ron, al secolo Rosalino Cellamare, autore di alcune tra le più belle canzoni scritte in quarant’anni anche per altri artisti, come Morandi, Mannoia, Dalla, Berté, Oxa, Antonacci... Apparire come si è non è facile per nessuno, ma per chi passa la vita su un palcoscenico è quasi incredibile. E allora provare per credere, lo incontriamo in centro a Milano, dove arriva con jeans e chitarra a tracolla sulla schiena: «È la mia ala», sorride, «senza non volo». Ron, perché il bisogno di raccontarsi in un libro? «Da anni trovo sempre più gratificante cantare dal vivo, e fin qui nulla di eccezionale. Ma appena salgo sul palco mi sento libero e questo tira fuori una parte di me che è Rosalino, la parte dei ricordi, della mia splendida famiglia, della carriera, e mi piace parlare con il pubblico, raccontare le canzoni, dietro le quali ci sono aneddoti sconosciuti, che a volte con la musica non c’entrano ma sono parte di me. È così che pian piano sto facendo incontrare Ron e Rosalino, e devo dire che vanno molto d’accordo». Colpisce l’umiltà con cui racconta cose belle e brutte, senza sconti per nessuno, nemmeno per se stesso. Cito un passaggio: «Ne parlo con la consapevolezza di non farci proprio una bella figura, ma desidero così mettere in guarda altre persone fragili...».«I miei genitori mi hanno sempre sostenuto nella mia passione, ma mi hanno tenuto con i piedi per terra. A 16 anni è facile perdere la testa, quando passi di colpo dai banchi di scuola al Festival di Sanremo e per strada ti riconoscono. L’umiltà me l’hanno insegnata loro, ma anche la musica stessa: a quei tempi non c’erano i successi improvvisi dovuti ai talent, tutto passava attraverso un impegno duro e si badava più al lavoro che all’apparire. La musica è un filo sacro e invisibile, non ti tradisce, e in cambio io le ho offerto una dedizione totale, non l’ho mai usata ». Ne ha fatto però il veicolo di valori intimi, come la fede. Lei sente, come artista, la responsabilità di un ruolo anche sociale? «Non sbandiero Dio ma lo enuncio chiaramente. La fede emerge anche se non vuoi, ha un canale suo che la gente intercetta, coglie che dentro hai qualcosa che va oltre. Purtroppo siamo il Paese meno rispettoso nei confronti di chi crede, come fosse una colpa: quando sono uscito con il disco intitolato Angelo, album di canzoni che ruotano intorno al rapporto tra noi e Dio, un critico di quelli che “contano” ha scritto che anziché a un concerto gli sembrava di essere stato alla Messa. All’estero c’è molta più libertà, negli Stati Uniti i cantanti più famosi si permettono di salutare con frasi tipo “Che Dio vi benedica” e certo non è uno scandalo, qui sarebbe impensabile». Tra le canzoni più belle mai composte c’è senz’altro Piazza grande, portata a Sanremo da Lucio Dalla. Lei l’ha scritta nel 1972, a soli 19 anni. Si può dire che è stata croce e delizia, per lei?«Dagli anni ’70 ho poi sempre scritto per Dalla, ero il suo riferimento musicale, ma così il mio lavoro rimaneva nascosto e io restavo “Ron, quello di Dalla”, un po’ perché lui era una presenza immensa, e un po’ anche perché la percezione dei critici e dei discografici è pigramente influenzata dal “padrinaggio”, un fenomeno molto italiano. Finalmente la svolta radicale è arrivata negli anni ’90, quando ho capito che dovevo affrancarmi dalla sua figura e, pur restando amici, ho inaugurato la mia nuova vita con Non abbiamo bisogno di parole, un successo enorme, la creazione che sento più mia. Ho coronato allora il sogno di aprire un mio studio di registrazione nella pace di Garlasco, l’“Angelo Studio”, e nel 1996 ho vinto Sanremo insieme a Tosca con Vorrei incontrarti tra cent’anni... Insomma, era stato un salto nel buio ma era giusto farlo». Dieci anni dopo, nel 2006, ha accettato di partecipare a Sanremo purché le permettessero di parlare della Sla... Una condizione inusuale. «Il mio più caro amico da sempre è Mario Melazzini, il celebre oncologo malato di Sla che combatte per trovare una cura. L’ho conosciuto quando era sano, 25 anni fa. Ero sulla neve a Livigno senza giaccavento, quando una voce dietro mi disse “lei si ammalerà”. Io pensai: “Ma perché non si fa i fatti suoi?”. A sera in hotel stavo male e chiesi di un medico, mi si presentò lui: “Visto?”. Non ci siamo più lasciati. È un uomo di grande coraggio e intelligenza, lui gravemente malato trasmette una gran voglia di vivere, vuole vedere gli altri felici. Ho assistito a tutta la tragedia, i primi malesseri, la diagnosi e, come sempre accade in questi casi tra gli amici, ho dovuto scegliere se scappare o restare. Tutti i giorni Mario mi insegna a combattere contro il nemico più grande, mantenendo un equilibrio nonostante la paura. Spesso andiamo insieme a Lourdes». Che cosa cambierebbe Ron del mondo d’oggi? «Non mi piace l’arroganza che prende il posto della ragione. Non mi piace nemmeno la paura che ormai determina le nostre azioni: le coppie non osano più sposarsi o si separano subito, un po’ perché l’Italia da decenni non fa politiche familiari, ma anche perché i giovani non vogliono impegnarsi nel “per sempre”, e questo è anche colpa di una comunicazione che non li incoraggia sulla via giusta». Se avesse potuto, che cosa avrebbe chiesto al Sinodo sulla famiglia? «La domenica in chiesa al momento dell’Eucarestia vedo alcune coppie risposate che abbassano gli occhi, sedute sulla panca. Non sempre ci si separa con leggerezza, a volte è qualcosa che si è subìto. Io credo che Dio non punti il dito su nessuno e che, come dice papa Francesco, ci guardi con misericordia». Il sottotitolo del suo libro è “Tutta una vita per cercare me”.«Sbagliavo le domande e così non trovavo le risposte, ma ho sempre desiderato capire come sono fatto. La persona cui devo di più è padre Silvano Fausti, un gesuita, l’uomo cui ho dedicato il libro. A metà anni ’90 ero precipitato in un malessere interiore, la mia anima aveva fame, e al ritorno dai concerti restavo tutta la notte chiuso in macchina davanti a una chiesa a chiedere, a interrogarmi. Una notte il parroco discretamente venne lì e mi offrì le chiavi della chiesa, fu un regalo immenso, potevo pregare nella pace assoluta, davanti al Santissimo... Ma poi feci l’incontro sbagliato con una donna e il suo gruppo di preghiera, che in realtà non aveva nulla di cristiano e instillava in noi l’arma del diavolo, il senso di colpa. Per tenerci legati a sé aveva bisogno delle nostre ansie e tutto era punizione divina. Invece Dio è libertà. Me lo fece capire padre Silvano, un innamorato di Cristo che mi presentò Dio com’è veramente, con la sua leggerezza, la sua disponibilità verso le nostre cadute. Lo incontrai per caso e da allora è la mia guida spirituale, anche oggi che non c’è più». L’aneddoto su un amico. «Biagio Antonacci. Era un giovane carabiniere a Garlasco, lo vedevo girare in divisa sulla camionetta. Un giorno si presenta da mia madre con un mazzo di fiori per conoscermi e mia madre, conquistata, irrompe in casa mia perorando la sua causa... Lo ricevo, lo ascolto e lui canta come Sting, capisco subito che è una forza. Gli ho prodotto il suo primo album». E un grande ricordo? «La fortuna di cantare davanti a 700mila persone per Benedetto XVI, la sua tenerezza, il rispetto mentre mi ascoltava. E l’ultimo dei sette incontri con papa Wojtyla: già molto malato, non riusciva a sollevare le palpebre, così mi sono inginocchiato. Caddi con la testa tra le sue mani. In quel momento potevo anche aver vissuto tutta la mia vita».
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