Roberto Calasso, morto mercoledì sera a Milano, era nato a Firenze il 30 maggio del 1941 - Chistè
La passione della letteratura, dove Roberto Calasso continuava a vedere gli dèi, è qualcosa che tende a spegnersi nelle case editrici, nelle pagine culturali dei giornali, nel cinema, e in ogni campo che dovrebbe esprimerla, farla conoscere, proteggerla, e alimentarla. La letteratura può fiorire dovunque, ma è qualcosa di raro e difficile. L’insieme di “lettere” scritte che comprende tutte le forme, compresa la poesia, brilla solo nella riuscita dell’arte, nella sostanza, non nel magma indifferenziato; né, tanto meno, nelle buone intenzioni, e nelle ideologie. In essa non può non affiorare la forza del “simulacro”, l’ágalma, termine tanto caro a Calasso: ossia la catena simbolica delle immaginazioni che si traducano in visioni, in storie interminabili, nel cui labirinto ognuno di noi è insieme Teseo e Arianna, il Minotauro, la croce, e la rosa. Per Calasso, nato nel 1941 a Firenze e morto mercoledì sera a Milano, la letteratura è stata la sostanza di se stesso, e dobbiamo tributargli una gratitudine totale. Perché essa ha coinciso con gli anelli di libri che saldavano la sua catena, segmenti di un serpente, frammenti di un libro singolo formato da tutti quelli pubblicati: e qui non indico solo quelli di romanzieri e poeti, ma di storici, di filosofi, di scienziati, di analisti e di ricercatori, tutti in grado di portare una scintilla rivelatrice. Ma quell’inanellamento non ci sarebbe stato, se nella sua opera non ci fosse l’impronta di una catena aurea, proprio quella di Omero pensata da Porfirio – balenante di folgorazioni e connessioni, che è all’origine della civiltà europea. Il vaso spezzato del mondo si ricompone, parzialmente, per ferite e sacrifici, solo nella letteratura, che sostituisce nell’ultima fase, tragica e parodica, come in Kafka, quanto è stato perduto nel mondo moderno, nella metropoli di Baudelaire, dove per sogni, e per corrispondenze, si insegue un Principio, o il Sacro. Una caccia per lampi analogici, seguendo vie diritte o tortuose, che si interrompono nel silenzio e nella tenebra, o nei baratri delle omissioni, è la ricerca di una mitologia finale che la letteratura contiene, perché vi si riversano tutte le storie e le culture, non solo greco-latina, ebraica, ma vedica e cinese, che instancabilmente Calasso collega e investiga. Sebbene questo proposito sia una necessità evidente, nessuno come Calasso, ha voluto dissimularla, lasciando che fossero gli scrittori a esporre le proprie ragioni, pur unilaterali, soggettive, antitetiche le une alle altre – mentre per se stesso, il “Cacciatore”, abbia voluto più che nasconderla, per non ostentarla, sviarne il nome, sotto la mole della sua conoscenza sterminata, e l’eleganza dell’understatement. Però, in tutti i suoi libri – La rovina di Kash, Le nozze di Cadmo ed Armonia, Ka, Il rosa Tiepolo, La folie Baudelaire, Il cacciatore celeste, Il libro di tutti i libri, fino agli ultimi –, Calasso ha inseguito il proprio pensiero, verso una salita insieme contemplativa e lucidissima, che scopre e non scopre l’ammirazione drammatica per quanto vorrebbe raggiungere, dimenticando se stesso, o fluendo nel punto luminoso e accecante che è il punctum, il sacro inarrivabile della “letteratura assoluta”, che ha sostituito quello delle religioni, imprescindibili. Nel 2001, nella Letteratura e gli dèi, proclamando la semi-inutilità delle discipline critiche, dichiarava che quasi «soltanto gli scrittori sono in grado di aprirci i loro laboratori», parlandoci di quella «realtà seconda», del «mistero palese» di ogni forma, «parola di Goethe». E mentre enumera queste guide «capricciose ed elusive... gli unici a conoscere passo per passo il terreno », con i loro saggi, scorriamo i nomi che ha pubblicato – Baudelaire, Proust, Hofmannsthal, Benn, Valéry, Auden, Brodskij, Mandel’šam, Cvetaeva, Kraus, Yeats, Montale, Borges, Nabokov, Manganelli, Calvino, Canetti, Kundera. Tutti, benché diversi, o talora avversi l’uno all’altro, parlano della stessa cosa: ed essa, più che da teorie, si riconosce da «una certa vibrazione o luminescenza». «Quella specie di letteratura è un essere che parla a se stesso», non perché sia autoreferenziale, né affondata nella “realtà”. A quel punto Calasso offre una lunga citazione da Novalis, sulla prodigiosa natura del linguaggio. Esso nasce dalla conversazione, dalla chiacchiera, da se stesso, e, come le formule matematiche, non è un impossessamento delle cose: quando diventa un mistero prodigioso, nel libero gioco di relazioni che le cose assumono rispecchiandovisi, e che ci anima: e quando – quasi all’insaputa di chi lo esprime – è poesia. E allora, chi ne rende comprensibile il mistero non «è uno scrittore per vocazione, poiché uno scrittore è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato?». Sempre divagando e omettendo, mostrando errori e aberrazioni dei moderni interpreti, filosofi e non, Calasso procede verso le ultime pagine, sul filo dell’incanto libero delle parole di Novalis, con l’Io, il Sé e il Divino, del frammento di coppa attica dove Apollo tende il braccio verso il giovane che scrive, e in mezzo, la testa tagliata di Orfeo. Fermo è il braccio di Apollo che sostiene la letteratura, e il suo sacrificio, su tutta la scena. Personalmente, avevo messo in serbo anche io, uno dei miei riferimenti preferiti di Novalis, quando dice che il centro unificatore del narrare è la poesia. Perché non ci sono risposte al «che cosa è» la letteratura o la poesia stessa, ma Calasso sapeva bene che questo centro esiste, sebbene sia indefinibile, e rarissimo. Oggi, mentre molti di noi preferiranno percorrere, come è giusto, l’opera così vasta di Calasso, vorrei ricordare il capitolo su Plotino del Cacciatore celeste, che succede al modello delle metamorfosi di Ovidio, e al suo mondo fluido; con Plotino la caccia alla conoscenza approda in quel volo o «fuga del solo verso il solo», l’Uno, non definibile, perché non limitabile, che si può contemplare soltanto tra luce e tenebra, al di sopra e causa della vita. In Plotino, oltre l’arroganza verbale degli gnostici e la tendenza all’anomia, la tradizione greca del Bello coincidente con il Bene da cui discende, e da cui viene la bellezza del mondo, diventano ricerca inarrestabile della mente e dell’anima: nella supremazia del Bene anche il male entra nell’armonia o senso del tutto. Non mi pare proprio che fossero a proposito le parole scritte qualche anno fa, a caccia di roghi, sulle gnosi del male. Non sono le teorie, né la filosofia né le credenze, che vanno cercate in una figura così straordinaria per la cultura e la letteratura, non solo italiane. Ho conosciuto Calasso nel 1987, quando Giuseppe Pontiggia volle che lo incontrassi per parlare dei saggi di Yeats che avrei pubblicato nel 1988 con Guanda, sotto il titolo di Anima Mundi. Calasso avrebbe voluto che li curassi per la sua casa editrice, ma avevo già contratto. Ben pochi, in quegli anni, sapevano valutarne la bellezza. Mi propose di tradurre le poesie di Thomas Hardy: non lo feci, e sbagliai. Nel 1988 pubblicò il suo primo libro di successo: Le nozze di Cadmo ed Armonia. Per chi, come me, ambiva con troppo orgoglio a rifare ex novo il mito, sembrò un esercizio di erudizione. Ma era un errore. Quella “fortunata” erudizione contribuiva a riportare l’attenzione su quanto importa, nella nostra cultura e letteratura, ossia alle origini: le racconta, in modo attento, come, diversamente, già dal 1970 aveva cominciato a fare Pietro Citati, con il suo Goethe, mentre fondava la collana di scrittori greci e latini classici e cristiani della Fondazione Valla/ Mondadori. Se non emergevano scoperte o nozioni “originali”, il suo merito era di ricondurre alla luce, di approfondire concetti magari altrui, che acquistavano una dimensione nuova, anche nei riflessi di altri libri. Penso non solo alle “acque mentali” delle ninfe, e alle loro configurazioni da Warburg. Ma al termine di abrosyne, una sorta di grazia, diversa dal bello, che viene prima di esso, e che riguarda l’estetica di Saffo. Si dirà che sono cose minori. Non lo sono affatto. Sono stili di civiltà, di intere epoche, e della sostanza del divino che è in noi. Mi capitò, per la mostra che curavo dei libri di Fellini, di chiedere a Calasso di approfondire il rapporto che Fellini aveva avuto con lui, anche quando fu suo tramite per i diritti di Simenon, con l’editore Daniel Keel. Fu in quel momento, che affiorò anche il progetto del film di Fellini sui miti greci. Ora che esce il libro di Calasso in ricordo di Bazlen, Bobi, non posso che rievocare l’intreccio di persone di cui ha scritto, da non tanto, Margherita Pieracci Harwell, mettendo insieme Cristina Campo, Ernst Bernhard, Gianfranco Draghi, tanto più che proprio l’ultima pagina di Bobi, singolare coincidenza, nomina i due libri che per Bernhard, e per Fellini, furono capitali, e che proprio Bernhard aveva donato a Fellini: l’I Ching, e L’abbandono alla Provvidenza divina, di Jean- Pierre de Caussade.