venerdì 26 aprile 2024
Alle Procuratie Vecchie una mostra dedicata all’artista celebre per le sculture con la parola “LOVE”. Alla radice del suo lavoro la vicinanza al movimento della Christian Science
Una sala della mostra dedicata a Robert Indiana nelle Procuratie Vecchie a Venezia

Una sala della mostra dedicata a Robert Indiana nelle Procuratie Vecchie a Venezia - Filippo Rossi

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Qualche anno fa occupandomi del celeberrimo “Orinatoio” di Duchamp, il cui originale è oggi visibile soltanto nella fotografia che nel 1917 gli fece Alfred Stieglitz, mi resi conto che il dipinto che fa da sfondo al “sanitario” era portatore di significati “occulti” e appresi che era stato eseguito qualche anno prima da un pittore, Marsden Hartley, per celebrare la memoria di un ufficiale prussiano, Karl von Freyburg, morto quasi subito nella Grande Guerra, col quale il pittore intrattenne una relazione sentimentale. Hartley, nato nel Maine e morto a sessantasei anni nel 1943, fu l’artista che influenzò inizialmente Jackson Pollock; durante un’estate degli anni Trenta aveva soggiornato sull’isola di Vinalhaven, al largo della costa del Maine, dove dal 1978 si trasferirà, per il resto della vita, anche l’artista Robert Indiana. Ispirandosi al “mandala” che ricorre nei dipinti di Hartley, dove si vede la croce di ferro attribuita a von Freyburg, Indiana – esponente di spicco del pop americano – dedicò un ciclo di diciotto dipinti, Hartley Elegies, eseguiti tra il 1989 e il 1994, dove oltre agli elementi astratti di Hartley aggiunse toponimi e date che si legavano anche all’ufficiale prussiano, come nella tela KvF XI esposta alle Procuratie Vecchie fino al 24 novembre nella ampia retrospettiva a lui dedicata col titolo The Sweet Mystery, a cura di Matthew Lyons e organizzata da Yorkshire Sculpture Park.

La storia di Indiana inizia nel 1954 dopo un periodo trascorso in Europa; all’epoca si firma Robert Clark, il cognome che prese dai genitori adottivi. I primi anni non furono facili, doveva barcamenarsi per trovare colori e materiali per il lavoro artistico, e non è un caso dunque che ai suoi inizi assemblasse detriti recuperati nell’area portuale di Coenties Slip, a Lower Manhattan, dove viveva in un loft fatiscente. All’epoca, potremmo dire, il pop era quasi una scelta indotta, anche se convinta nel metodo. Furono occasioni che lo portarono a contatto con altri nomi d’avanguardia come James Rosenquist e Ellsworth Kelly, col quale sta bilì anche un’amicizia dai risvolti amorosi. L’artista cambiò nome nel 1958 dopo aver realizzato il murale Stavrosis ( Crocifissione, in greco), composto di 44 elementi di carta, dove Cristo sembra figurare fra i due ladroni.

Indiana era sensibile alla predicazione della Scienza Cristiana (Christian Science), movimento religioso nato a fine Ottocento (niente a che fare con Scientology), che aspirava a ritrovare un cristianesimo delle origini. Per Indiana, che prende questo cognome dallo Stato dove nacque nel 1928, da quel momento cominciò una ricerca che ebbe il suo centro nel vocabolo Love, simbolo ed concreta espressione attraverso l’enfasi riposta sulle lettere che si presentano sia in forma bidimensionale dentro un quadrato, sia in forma scultorea nel marmo o nel bronzo trattato con riflessi dorati.

Il passaggio dagli anni Cinquanta ai Sessanta lentamente sposta il discorso su simbologia e trascendentalismo, le cui radici sono anche letterarie e mistiche (da Whitman a Melville agli apporti del cristianesimo scientista) e abbracciano dapprima figure allusive come quella del ponte – Crossing Brooklyn Ferry di Whitman o The Bridge di Hart Crane –, ma anche naturalistiche, si veda la doppia foglia di ginkgo, che aveva rimirato dal loft a Jeannette Park e che resterà a lungo nella sua “iconologia”, per così dire. Da queste ispirazioni letterarie e poetiche prendono vita The Melville Triptych nel 1962, Wall of China del 1960-61, ma anche l’ossessione numerica, come in Exploding Numbers (1964-64) che si allarga sulla parete crescendo come un allusivo big bang («I numeri riempiono la mia vita. La riempiono anche più dell’amore. Siamo immersi nei numeri dal momento in cui nasciamo: compleanni, età, indirizzi, denaro…».

Ma il “mistero” si apre infine a dialettiche metafisiche nel ciclo Eat/Die del 1962, dove la parola viene a occupare e a dare il senso ultimo al dipinto (o alla scultura, nel bronzo del 1991). Si afferma una contrapposizione in certo modo terribile: «Mangia e muori», ovvero, come si dice in catalogo, «riduzione ai minimi termini di un’idea». Il sacro di Indiana è anche memoria del tempo che ricompone un’identità, come i legni degli alberi delle navi che egli riutilizza per quelle che chiama “erme”, corredandole ancora di lettere dipinte o assemblando bucrani, corde, timoni o ruote, queste intese come parafrasi visiva di ali angeliche che trasformano quei legni in totem di un mondo salvato dai suoi archetipi: The American Dream del 1992, My Mother, My Father, Call Me Ishmael, Cal Me Indiana (1964/1998) oppure Ash del 1985. Opere che ruotano sempre attorno alla sintesi della vita e della morte a cui allude in titolo della mostra. In particolare, la ruota, come il cerchio, contiene la ricerca dell’eterno che ha dominato Indiana fino all’ultimo giorno, si veda The Ninth Love Cross del 2001, composizione cruciforme davanti a cui si fece fotografare.

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