Il poeta statunitense Robert Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963) - archivio
Se Walt Whitman è “il poeta dell’America”, poeta nazionale nel senso più pieno e fondativo che ne accompagna la nascita fino alle soglie della società di massa, Robert Frost (1874-1963) – volentieri accreditato dello stesso titolo – lo è di una società già molto diversa, ormai ‘compiuta’, definita da consumi e sogno televisivo, e all’interno della quale, nella sua lunga carriera, arriva ad assumere i contorni di una star dello spettacolo: a fianco di JFK il giorno dell’insediamento, con Chruščëv in Unione Sovietica o, ancora, nel palasport di Detroit davanti a 10.000 persone (in gran parte giovani e tutte paganti). Era partito per l’Inghilterra nel 1912, lasciando l’insegnamento e vendendo fattoria e allevamento di polli per scommettere tutto sulla poesia. Tre anni dopo, quando riattraversa l’oceano, ha pubblicato solo due libri, ma vanta già una certa notorietà che gli porta i primi inviti a incontri e conferenze, un’attività che crescerà parallelamente alla fama e ai tanti riconoscimenti (tra i quali quattro premi Pulitzer e una quarantina di lauree ad honorem). L’ultimo evento pubblico, a Boston nel 1962. È l’inizio di dicembre: ricoverato il giorno successivo morirà un paio di mesi dopo, il 29 gennaio 1963.
I suoi reading sono vere performance, nelle quali Frost intervalla la lettura delle proprie poesie a discorsi di politica, scienza, questioni sociali, citando Mamma Oca e filastrocche popolari; ora sarcastico, ora intimo e colloquiale, più spesso ammiccante, con la battuta sempre pronta. In fondo però il personaggio di sé che viene man mano modellando non nasconde la stessa ambiguità e ritrosia con cui ha sempre difeso il proprio lavoro; un modo per confondere chi pretende che si schieri politicamente - "Ha detto di tutto stasera, signor Frost, ma lei cos’è, un conservatore o un radicale?" - o quasi per irridere chi gli chiede cosa voglia dire “davvero” quella certa poesia o ne “vuole conoscere l'ispirazione". Allo stesso tempo, appena dietro gli aspetti più superficiali del suo successo, si vede bene come egli sia poeta autenticamente popolare e come in quell’esperienza di “un groppo in gola, un senso di sbagliato, una nostalgia di casa o una nostalgia d'amore”, cui lega l’origine della poesia, quei ‘diecimila’ possano ritrovare esattamente le proprie ansie e domande. Una corrispondenza inaspettata per chi probabilmente non ha mai pensato di interessarsi di poesia e invece si trova davanti qualcuno che sembra conoscerlo profondamente e anche volerlo accompagnare nello “sforzo per trovare compimento.” Magari non come quello che promettono le grandi ideologie o “una chiarificazione grande come quelle su cui si fondano i culti e le sette, ma [almeno] una sosta momentanea contro lo smarrimento".
Una tensione che, certo, appartiene a tutta la poesia; alla quale Frost favorisce l’accesso con la sua lingua quotidiana e certe narrazioni drammatiche i cui dialoghi invitano all’immedesimazione; e più ancora, per l’intenzione e la dinamica stessa di scoperta che ne sostengono i versi. “Quasi la terra per un imprevisto favore / Li avesse assicurati che ad essi ricambiava / il loro amore” (Conoscenza della notte, Mondadori, trad. Giovanni Giudici). La sua poesia diventa infatti emblematica di un modo di osservare la realtà, di uno sguardo che "comincia in gioia e finisce in saggezza”: relazione con il mondo, amorosa e di scoperta, che facilmente riecheggia San Gregorio di Nissa: “i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce”. Di questa sorpresa, dell’improvviso stupore che sempre coglie l’uomo quando guarda il mondo ‘senza abitudine’ (gli idoli), il poeta si offre come mediatore, e quella relazione “imprevista”, nell’amato gioco della metafora, con le sue “abilità e prodezze di associazione”, possa giungere a un compimento e ogni volta riaccadere sempre nuova. “L'anima deve convincere l'anima che può emanare gli stessi bagliori d'eternità. In nessun momento nessuno, tranne uno sciocco bruto, vorrebbe interrompere questa corrispondenza. È tutto ciò che c'è da soddisfare; ed è salutare vivere nel timore che si spezzi.”
Proprio questa misteriosa capacità di creazione concessa all’uomo è forse ciò che in Frost, per analogia o per nostalgia, ha lasciato sempre aperta, oltre ogni sarcasmo, la possibilità di un ‘interlocutore’ cui rivolgersi. E anche se sulla sua esistenza Frost ha mantenuto la solita ironia ambigua, è difficile negare che questo continuo sorprendersi abbia un contenuto sinceramente religioso. È il suo “bisticcio d’amante col mondo”, quella corrispondenza intravista e sempre delusa, quel momento di sospensione nel quale qualcuno sembra rivolgerti la parola, svelarti un segreto e poi invece si ritrae di nuovo; ma dal quale non si è mai sottratto. “Da chi gioca a nascondino / fino a Dio, vale per tutti, / chi si nasconde troppo bene / parli e dov’è ce lo dica.” (Fuoco e ghiaccio, Adelphi, trad. Silvia Bre).