La stratificata struttura urbana di un centro calabrese - Razvan Horhat/ Unsplash
Si fa un gran parlare di ritorno ai borghi, di ripopolamento delle aree interne, di ritorno ai paesi. Al punto tale che di fronte a tanta retorica un po’ di persone, soprattutto antropologi, hanno preso le distanze. Anna Rizzo, un’antropologa il cui 'campo' è cercare di vitalizzare un piccolo paese in Abruzzo, Frattura, ha scritto un libro furente contro la faciloneria del 'ritorno', I paesi invisibili, Manifesto sentimentale e politico per salvare I borghi d’Italia (il Saggiatore, pagine 168, euro 17,00). Molti paesi, dice Anna Rizzo, sono in condizioni di umana miseria, il tessuto sociale distrutto, le risorse inaccessibili, il regime spesso patriarcale e di puro sfruttamento. Tutt’altro che il sogno romantico che dovrebbe ispirare i giovani all’avventura nelle 'zone interne'. La retorica però esiste, perché ci sono implicati enormi finanziamenti, leggi apposite, spinte europee. Un vero business senza alcuna visione. Seguendo il dibattito, leggendo il libro della Rizzo mi è venuta una fitta. E sono partito per rivedere il paese in Calabria dove negli anni ’70 ho fatto il mio primo 'campo', Fabrizia, un Comune calabrese a 900 metri arrampicato tra le foreste delle Serre, a venti chilometri dall’abbazia di Serra San Bruno. Quando ci andai nel ’72 non avevo alcuna idea di 'campo', ma rispondevo all’invito di un gruppo di Vibo Valentia che chiedeva a nome del paese una mano per affrontare la situazione dopo una terribile alluvione che aveva distrutta una parte dell’abitato. Stavo finendo la facoltà di Architettura e decisi di vivere la mia tesi aiutando per come potevo la popolazione colpita. Da poco c ’era stato il terremoto nel Belice e avevo vissuto la tragedia delle evacuazioni e la successiva follia delle baracche (e della ricostruzione). Fu un’esperienza fortissima. Mi trovai dentro a un tessuto inaspettato e vivissimo, gli uomini che parlavano in falsetto e raccoglievano funghi e le donne che lavoravano nei campi e facevano politica. Fui coinvolto, reso utile come autista di un pulmino che portava i funghi a valle e per difendere gli abitanti dai funzionari della Regione e dello Stato che spingevano allo sgombero del paese. Ci rimasi per qualche mese e ci tornai nei due anni di seguito. Vivevo per la prima volta immerso in un mondo contadino e montanaro che - al di là della retorica alla Ernesto De Martino sulla fine di esso - si dimostrava vitale, reagiva con dignità e forza a chi lo voleva negare. Imparai che la dichiarazione di morte del mondo contadino era stata firmata da una ideologia operaista e progressista che voleva che l’unico contadino ammissibile era quello che lavorava alla Fiat o in Germania. Appresi che in Calabria come nella mia Sicilia erano stati non le destre, ma le compagini più progressiste a condannare come retrive le occupazioni delle terre, le cooperative di mutuo soccorso e il tessuto del mondo contadino. Era la condanna marxista dell'idiotismo' delle campagne a rendere miopi coloro che avrebbero dovuto difendere quel mondo. Cosa accadde a Fabrizia negli anni ’70 e perché tornarci è stato ri-scoprire qualcosa di fondamentale rispetto alla retorica dei borghi? Passeggiando per le sue strade qualche giorno fa mi sono reso conto di alcune cose che avevo dimenticato. Fabrizia è un paese povero, poco turistico, che vive della raccolta dei funghi e dei magnifici campi che lo circondano. Ma è un paese vivo, dove ci sono bambini, negozi, bici, monopattini, legna da ardere, finestre schermate da tende ricamate, giovani che giocano a carte, macellerie, insaccati, peperoncini, furgoni e api da lavoro, avvisi funebri appesi con i nomignoli con cui erano conosciuti da vivi i defunti e tutto quello che fa pensare che non è un luogo che si svuota appena passa la stagione. A distanza di cinquant’anni Fabrizia esiste ancora e racconta qualcosa che il 'ritorno ai borghi' ignora: in Italia le 'aree interne', il mondo contadino, montanaro, marinaro erano sede di culture millenarie, deposito di sapere e fonte di risorse, non erano solo 'luoghi', case, casolari da recuperare per romanticismo. Non sono mai stati luoghi romantici, come non lo sono le città, erano semplicemente un mondo intessuto di relazioni, un discorso umano tra generazioni di insediati. Camminando tra i suoi vicoli, arrampicandomi per le salite e le scale, ricordandomi della tipologia schietta ma sapiente delle case, mi è tornata in mente l’attenzione che cinquanta anni fa mi aveva illuminato. La gente non ha accettato qui il giudizio esterno. Gli alluvionati sono stati ospitati nelle case che erano rimaste in piedi. E gli abitanti hanno rifiutato radicalmemte 'l’aiuto' delle baracche, lo sgombero e il trasferimento del paese altrove. E in autocostruzione, lentamente hanno recuperato quello che si poteva recuperare. Camminando per le strade di Fabrizia si vedono ruderi accanto a case rimesse perfettamente a posto. La scelta è stata: restiamo qui! Lo si capisce quando i vicoli sbucano sul paesaggio circostante che è di una bellezza da mozzare il fiato, gli immensi boschi ricchi di porcini, le valli rigogliose, gli orti generosi. Perché andarsene? Ho sentito l’attaccamento degli abitanti di Fabrizia adesso come allora, quella dignità che gli faceva rifiutare le promesse dello Stato di avere case moderne in un posto sicuro. Ho capito, camminando per Fabrizia, che la retorica dei borghi è tutta dimenticanza di un mondo che c’è stato ma in alcuni luoghi c’è ancora. Ho capito che l’antropologia italiana ha dimenticato il mondo contadino e lo ha relegato nell’armadio del passato, degli orrendi musei etnologici e negli studi del mondo di una volta. Ernesto De Martino ne è stato l’antesignano e quello che ne ha sigillato la tomba, ignorando che intorno a lui c’era chi di quel mondo parlava come cosa vivente, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Carlo Doglio, il magnifico gruppo dei Quaderni Calabresicon Nicola Zitara, Francesco Tassone, Mariano Meligrana e perfino Elio Vittorini quando non faceva il funzionario di partito e scriveva Le città del mondo.