Armando Rigobello (1924-2016)
Nell’insopprimibile esigenza dell’ulteriore si agita la domanda filosofica del senso o del non-senso dell’esistenza umana. «La filosofia – precisa Armando Rigobello – è interrogazione da cui non si può sfuggire senza perdere della propria umanità ». Ed è alle domande di Kant che egli si riporta: che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è concesso di sperare? E proprio «la domanda che cosa mi è concesso di sperare? – commenta Rigobello – rimane autenticamente filosofica, emblematica della condizione umana colta in una dimensione ancora più profonda di quella esplicitata dai due precedenti interrogativi. In quella richiesta sulla possibilità della speranza si manifesta una tensione esistenziale portata al limite, emerge dal contesto quasi una invocazione.
L’invocazione non è ancora preghiera, non attende necessariamente una risposta, ma è un atteggiamento rivelativo di una struttura esistenzialmente aperta, rivolta ad un trascendimento che si inscrive quale elemento costitutivo nel contesto stesso della condizione umana» Considerazioni, queste, che fungono da preludio a una esplicita indagine che Rigobello sviluppa sulla natura della domanda filosofica. In termini classici: perché l’essere invece che il nulla? Quale è il senso della storia umana nella sua interezza? In termini esistenziali: perché tanto male? Quale il senso della sofferenza umana, della sofferenza innocente e, soprattutto, della sofferenza degli innocenti? Dunque: che tipo di domanda è la domanda filosofica? Allorché ci troviamo di fronte a un problema scientifico noi abbiamo da risolvere una incognita partendo da dati cogniti.
Ma questa non è la situazione della domanda filosofica: in essa tutto diventa incognita – chiedere il senso del tutto coinvolge il domandante stesso. È questa una idea «resa celebre da Heidegger» e che «ritroviamo come motivo dominante nella riflessione esistenzialista», e non solo tedesca; basti pensare alla fondamentale distinzione operata da Gabriel Marcel tra problema e metaproblema. Se nella formula del problema scientifico si cerca un’incognita a partire da dati conosciuti, nella domanda metafisica tutto si trasforma in incognita, e in essa chi pone la domanda diventa «problema a se stesso». Scrive Rigobello: «Il mettere in questione se stessi ha lontane origini in Agostino quando, nel IV libro delle Confessiones, descrive il suo stato d’animo di adolescente profondamente scosso per la morte di un giovane amico: 'Ero divenuto una grande questione a me stesso'.
La dolorosa circostanza era stata l’occasione bruciante per gettare Agostino in quello stato di smarrimento in cui gli sembrava che ogni cosa perdesse di significato per lui. Di conseguenza l’oggetto del suo problema finiva per essere non solo l’amico perduto, la comunicazione interrotta, ma se stesso, un se stesso svuotato di motivazione, spettatore della caduta di senso, ridotto appunto a essere un grande problema per se medesimo». «Se dal linguaggio discorsivo delle Confessiones, segnate dall’intensa e ardente tensione autobiografica, passiamo alla riflessione filosofica contemporanea, incontriamo lo stesso concetto tradotto tuttavia nei termini di una elaborata tecnica speculativa. Ogni domanda intorno alla realtà sembrerebbe domanda su singoli oggetti determinati, inscritti in settori particolari dell’esperienza. E così effettivamente sarebbe se ci fermassimo al livello scientifico dell’indagine, ove ogni quesito particolare richiede una adeguata risposta particolare.
Questa opinione, che sembra ovvia, cade tuttavia se ci poniamo dal punto di vista di colui che rivolge la domanda e, più precisamente, se ci situiamo nel centro dei suoi interessi fondamentali. Ci si accorge allora che quando poniamo una domanda rimaniamo coinvolti nella domanda stessa». La filosofia, pertanto, trova una sua chiara giustificazione «nell’atteggiamento dell’uomo che si interroga intorno alla vita ed alla realtà nonostante le risposte che la scienza può dare e nonostante consolidate opinioni correnti [...].
Questo interrogativo comporta la messa in questione di se stessi, la costante riapertura dei problemi fondamentali. La filosofia è situata in questo ambito, ne è l’espressione e in esso si giustifica». Certo, per chi pensa che la vita possa e debba ridursi «in una prospettiva meramente prammatica e funzionalistica », per quanti sostengono che il solo valido sapere sia quello scientifico e che valgano unicamente risultati pratici di riuscite soluzioni tecniche, i problemi filosofici appaiono quali «pseudoproblemi ». In ogni caso, fa presente Rigobello, «possiamo comunque supporre che l’effetto di questa anestesia di fronte al trauma dell’esistenza possa ad un certo momento cessare e che quindi la domanda filosofica ricompaia, a volte tragicamente incalzante. Viene sempre un momento in cui l’efficienza dei risultati, il successo o comunque la tensione dell’esistenza, nella competitività della vita associata o nel calore della comunicazione intersoggettiva, non bastano più.
Un momento in cui ci si stanca di combattere e di dimenticare. In quella battuta d’arresto, in quel vuoto operativo, in quella sospensione del vissuto e delle sue lucide dinamiche ricompare l’interrogativo esistenziale e con esso riacquista motivazione la filosofia».
Sulle orme di Mounier e Ricoeur
Armando Rigobello, originario di Badia Polesine, ha insegnato nelle università di Perugia, Roma e Tor Vergata; dal 1989 al 1991 è stato il primo rettore della Lumsa; la sua ricerca spazia da Kant a Mounier e Ricoeur. Al collega, morto il 5 aprile 2016 a 92 anni, Dario Antiseri dedica «Armando Rigobello e la filosofia come lotta per il significato» (Rubbettino, pp. 78, euro 10), da cui riprendiamo qui uno stralcio. Per lo stesso editore Antiseri ha appena pubblicato il colloquio con Juan Pablo Marcos Bay «Le ragioni della libertà nei Protagonisti della Grande Vienna» (pp. 130, euro 13).