Pontoni rappresentò la signorilità, lo stare in compagnia, l’amore per il calcio e non per i milioni, perché non scelse la comodità europea di quei tempi, preferì stare vicino alla famiglia e agli amici. Parlai una volta con l’avvocato costituzionalista Ricardo Monner Sans, uomo onesto che dedicò la sua vita a lottare contro la corruzione: era un fanatico del San Lorenzo e condivise momenti in tribuna con Bergoglio. Nei suoi racconti, mi resi conto del contesto nel quale Pontoni brillò. Diceva Monner Sans che in quel tempo non si festeggiavano i gol segnati su rigore, vista la disparità di forze tra chi tirava e il portiere. Diceva che se il portiere parava, lo applaudivano le due tifoserie. Che le magliette del 1946 non avevano pubblicità, né numero sulla schiena. Neppure c’erano sostituzioni, e quelli talentuosi come Pontoni dovevano prendersi i calcioni e andare avanti, anche se non se ne davano molti. Non c’era il quarto uomo, ma un cronometrista, e quando era il momento faceva un passo avanti e il primo tempo o l’intera partita era terminata. Pontoni non si depilava, non guardava il maxischermo dello stadio come se fosse uno specchio, non posava con orologi o abbigliamento costoso. Era un lavoratore, un signore elegante del calcio, che lasciò le sue prodezze nella memoria di un bimbo di Flores di 9 anni che si chiamava Jorgito. Jorgito Bergoglio. Una volta lo riconobbero come il miglior giocatore d’Argentina, però questo è un dettaglio.
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