Sul delicato rapporto tra scienza e fede, vera croce della modernità, notevoli passi avanti sono stati compiuti nel districare la matassa e numerose incomprensioni reciproche sono state sciolte. Ne rimangono però nello sfondo alcune di grande portata su cui l’avanzamento è lento e contrastato, e la possibilità di equivoci ancora vigorosa. Le riassumo in tre domande: è fondato assumere che solo la conoscenza scientifica è conoscenza, e che filosofia e teologia non apportano alcun sapere? È vero che il mondo è uscito dal nulla da solo, e che l’evoluzione rende superfluo il creatore? O all’inverso il big bang può essere inteso come una conferma della creazione? A questi interrogativi dedichiamo attenzione in questo e in successivi articoli, nell’intento di chiarificare i temi e di dissipare alcune mitologie scientifico-filosofiche contemporanee.
Dal punto di vista conoscitivo la scienza, la filosofia di orientamento realistico e la teologia (intesa come fides quaerens intellectum, ossia come la fede che cerca la sua autocomprensione) sono accomunate dalla scelta per il realismo, cioè dall’idea che con il nostro intelletto possiamo conoscere il reale e così acquietare almeno un poco la nostra sete di conoscenza. Esse, pur rimanendo conoscenze di ordine diverso anche per i metodi seguiti, sono più vicine di quanto possa sembrare, perché vi sono aree di tangenza o di sovrapposizione in cui occorre ascoltarsi reciprocamente e dialogare per comprendere le rispettive posizioni e i loro ambiti di validità. Si pensi al tema cosmologico e a quelli della creazione e dell’evoluzione. La bellezza e il fascino del sapere scientifico riposano sull’assunto che esista un ordine, in cui ci troviamo immersi, che si dà e insieme si vela, e che dobbiamo decifrare. Riflettendo sulla scienza e sulla cultura umana molti hanno osservato con buoni motivi che in casi decisivi la scienza riposa su un atto di fede razionale.
Il principio cosmologico – l’assunto della scienza secondo cui in tutte le regioni dell’universo valgono le stesse leggi fisiche e le stesse proprietà della materia che noi riscontriamo nella piccola parte dell’universo che conosciamo –, rappresenta una atto di fede di tal genere. Se fossimo convinti che nel reale non vi è alcun senso intelligibile, non faremmo ricerche e entreremmo nella disperazione più tragica, perché il nostro desiderio innato di sapere come stanno le cose sarebbe totalmente frustrato. I Greci erano convinti che il cosmo e l’essere fossero intelligibili, e i cristiani lo sono ancora di più poiché apprendono che “In principio era il Logos”, non che in principio vi fosse l’assurdo o il non-senso, o l’oscurità. Il Logos creatore ha impresso qualcosa della sua luce, del suo ordine e misura nell’universo. All’inizio della ricerca di numerosi padri della scienza moderna stava l’intento ardente di conoscere qualcosa del creato per conoscere qualcosa del Creatore.
La nascita della scienza moderna in Europa è sorta in ambito cristiano. L’atto di fede dello scienziato sulla almeno parziale intelligibilità del mondo può riposare o su una scommessa elevata verso l’ignoto, oppure sul sentimento che una mente, un logos che non si mostra mai pienamente e che rimane velato nel mistero, abbia lasciato tracce di sé che possiamo seguire. Riconosco volentieri lo straordinario fascino delle ricerche scientifiche di astrofisica e di microfisica, senza dimenticare che le ricerche metafisiche non sono meno fascinose delle precedenti, e in genere più decisive per la ricerca ultima della verità delle cose. Non pochi riterranno quest’ultima affermazione solo un auspicio o anzi una dichiarazione visionaria. E qui sta il punto: l’immenso problema che rimane aperto tra scienza, filosofia e fede non concerne il fascino che ciascuna delle tre può esibire e l’entusiasmo che può accendere, ma è un altro e di rilievo straordinario: riguarda la conoscenza umana, la sua portata e i suoi gradi o livelli diversi. Sotto questo profilo i passi avanti compiuti non sono per ora molti: persiste tenacemente in tanti scienziati e in un certo numero di filosofi – retaggio di un positivismo e un neopositivismo attaccati ai loro propri dogmi – l’assunto che solo la scienza ci offre il bene della conoscenza, e che se qualcosa conosciamo lo dobbiamo solo a lei. In tal modo la conoscenza umana è violentemente appiattita su una sola dimensione, quella fisica, e il meta-fisico è lasciato fuori: alla filosofia rimane soltanto l’etica e alla religione solo il vago e fluttuante mondo della vita interiore.
Si perpetua ancora l’idea di religione, difesa a spada tratta da Spinoza nel ’600, secondo cui in essa non vi è conoscenza, bensì solo culto, pietà, obbedienza: in altre parole la religione non avrebbe nulla a che fare con la verità. La drastica espulsione della religione dall’ambito del vero da parte del razionalismo moderno si sta forse attenuando, ma cova sotto la cenere e non ci vuole molto per riaccenderla. Manca tuttora nell’epistemologia contemporanea l’idea centrale che esistano diversi livelli del sapere e della conoscenza, per cui è falso in radice l’assunto positivista che eleva solo il sapere scientifico. Su questo punto l’opera I gradi del sapere di Jacques Maritain, mettendo in luce che esiste un ordine e una differenziazione dei saperi, rappresenta un punto di svolta nel pensiero moderno da Cartesio in poi, e la dichiarazione di chiusura della filosofia moderna che punta solo sulla scienza. I filosofi realisti del ’900 che discendono dall’atto inaugurale di Tommaso d’Aquino, hanno risposto alla domanda su che cosa conosciamo quando conosciamo, e ciò non è inventare racconti ma inseguire tracce che tralucono nel cosmo e nella vita. Occorre verificare il valore dei nostri mezzi conoscitivi alla luce di un realismo scientifico e filosofico che cerca di stabilire la portata della conoscenza scientifica e di quella filosofica, della loro integrazione e differenza. (1, continua)