Un ritratto di Alessandro Manzoni
Finora l’indagine più attenta sul rapporto fra Alessandro Manzoni e la Bibbia era opera di un narratore e non di un saggista. Nel Natale del 1833 (premio Strega nel 1983) Mario Pomilio aveva infatti immaginato che il grande romanziere, incapace di portare a termine la poesia scaturita dal dolore per la morte della moglie Enrichetta, si cimentasse nella stesura di una tragedia di argomento biblico, un Giobbe del quale venivano magistralmente e inventivamente ricostruite genesi e intenzioni. In effetti nella biblioteca di don Lisander una riscrittura letteraria di Giobbe esisteva davvero, come ricorda il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in un libro tanto breve quanto prezioso. Manzoni e la Bibbia (Salerno, pagine 96, euro 7,90) si presenta come contributo sulle fonti bibliche delle Osservazioni sulla morale cattolica, ma le informazioni che trasmette e la prospettiva che suggerisce valgono come inquadramento generale per approfondire una questione tutt’altro che marginale nella vicenda umana e artistica di Manzoni. Il Giobbe, dicevamo. Negli scaffali della sua casa milanese lo scrittore conservava una copia del Giobbe tradotto in terza rima da Angelo Fava, pubblicato dalla Stamperia Reale di Torino nel 1851: «Nella terra d’Ausite un uom vivea / Semplice e retto; Giobbe era nomato, / Che il mal fuggiva, ed il Signor temea». Non esattamente un capolavoro (era il tipo di versificazione che Giacomo Leopardi avrebbe detestato e che suo padre, il conte Monaldo, ammirato con pari determinazione), ma del resto le scelte del Manzoni biblista si indirizzano spesso verso opuscoli di intonazione devozionale. E anche le opere più strettamente esegetiche, osserva Ravasi, sono raccolte in modo abbastanza eclettico. Una cura maggiore è riservata al testo della Scrittura, per il quale Manzoni non si accontenta della pur irrinunciabile Vulgata di san Girolamo, ma ricorre anche a traduzioni in francese e in inglese. In piena coerenza con la teologia dell’epoca, lo scrittore legge la Bibbia come un testo uniforme e uniformemente ispirato, senza alcuna distinzione tra i diversi generi letterari e senza preoccuparsi della storicità del testo (all’epoca quest’ultimo elemento non era ancora entrato nel dibattito esegetico, come giustamente sottolinea Ravasi). Capita dunque che in un solo brano delle Osservazioni sulla morale cattolica siano affiancate citazioni provenienti dai Vangeli e dai Profeti, dai Salmi e dalle Lettere paoline. E questo non per superficialità, ma nella piena convinzione che la Bibbia sia, nella sua interezza, la prima e ultima istanza alla quale la ragione umana può fare appello. È la formulazione di un metodo che, pur applicandosi principalmente ai comportamenti morali, assume portata universale: «Consultiamo la Scrittura – propone Manzoni –, consultiamo la ragione, cerchiamo i principi e le conseguenze legittime di questa dottrina, e della dottrina contraria». Nonostante le apparenze, l’atteggiamento che ne risulta non è di mero fideismo, ma di una laicità razionale che distingue, per esempio, l’esperimento manzoniano dal Genio del cristianesimo di Chateaubriand e lo avvicina semmai all’imprevedibile Saggio sull’indifferenza in materia di religione di Lamennais. Quella di Manzoni non è mai un’apologetica consolatoria, ma una visione teologica che ha in Cristo il suo centro e che si esprime attraverso l’amore. Di tutto questo le Osservazioni sulla morale cattolica (che Ravasi legge nell’edizione del 1855) mostrano l’impalcatura concettuale, la stessa sula quale si regge l’impareggiabile edificio dei Promessi Sposi: un altro caso, insuperabile, in cui romanzo e saggio si vengono incontro, si intrecciano, si spiegano a vicenda.