Non ci si rassegna mai all’ultimo spettacolo. Per l’attore è sempre quello che verrà. Maurizio Scaparro, ne L’ultimo pulcinella (nelle sale dal 13 marzo) racconta l’ostinazione dell’artista a calcare la scena anche a costo della fame. Lo fa con un film che lo riporta a un testo inedito di Roberto Rossellini, che già vent’anni fa tradusse a teatro con lo stesso protagonista di oggi, Massimo Ranieri. Pulcinella scappa via da Napoli a Parigi, e trova la sua casa in un piccolo teatro abbandonato di una banlieu, dove la condizione ai margini degli immigrati diventa riflesso della miseria e nobiltà a cui l’artista si sente condannato. La fantasia al potere parla napoletano e indossa sotto la maschera di Pulcinella, il volto di Massimo Ranieri, le rughe incise dall’esperienza che a Napoli è insieme vita e arte, melodia e spettacolo. La sua voce come un sipario invisibile apre e chiude la scena. Lui è Michelangelo, una maschera di strada che arriva a Parigi sulle tracce del figlio fuggito da casa.
L’impresario napoletano all’inizio del film dice al suo personaggio: «Pulcinella è vecchio. La gente di questi tempi vuole ridere ». Chi è, secondo lei, Pulcinella, oggi? Pulcinella è il sogno. Quello che ancora de- ve nascere e deve arrivare. È il futuro in mano ai giovani. È l’entusiasmo di portare avanti questo pensiero rivoluzionario, l’utopia dell’artista. È chi si ostina ad amare lo spettacolo, il teatro, la musica. L’impresario rappresenta invece tutti coloro che non vanno al di là del proprio naso e pensano solo alla moneta.
Nello scontro generazionale tra il padreattore e il figlio sembra però che rispetto al passato ci sia il rischio di perdere qualcosa… È il conflitto di tutti i giorni, tra padre e figlio. Michelangelo tenta di trasmettere al figlio un pensiero così nobile come il teatro, incarnato nella maschera di Pulcinella, ma trova sempre una resistenza, un rigetto. Solo dopo aver visto con quanta abnegazione il padre si dedica al suo lavoro, capisce cosa significa il teatro. E forse in quel momento, anche in lui nasce un futuro Pulcinella.
Napoli e Parigi, bellissime città con complicatissime periferie. È possibile come nel film costruire attraverso il teatro un centro d’identità multiculturale in una banlieue? La periferia è un sud del sud. E come tutti i sud è destinata a soffrire e a soccombere. L’artista non può trasformarla se non allietandola. Basta prendere due casse di costumi e fare teatro per e con gli abitanti delle periferie. Coinvolgerli, appassionarli, fraternizzare: condividere quei momenti, ognuno con la propria cultura.
La canzone napoletana diventa il traino di una musica del mondo al centro di uno spettacolo multietnico. È questo esotismo il suo fascino? La musica è il fondamento predominante della maschera, Pulcinella, del mito teatrale ma anche del popolo napoletano. Io ho la presunzione di pensare che Palummella, la canzone che canto nel film, è all’altezza di un’opera di Wagner o di Schubert. Quelle sono state scritte per un’orchestra, questa per la semplicità di una chitarra. Ma la poesia e la forza che c’è dietro è la stessa. Poi, con gli innesti dei musicisti africani si moltiplicano le sonorità, i colori, i sapori, e viene fuori una musica che va al di là di qualsiasi barriera.