Me ne sto seduto dietro la mia postazione, con lo schermo del Pc e le pile di libri in transito a fare da bastioni. Mi fingo affaccendato e invece osservo di sottecchi i presenti. Uno di loro potrebbe essere in pericolo. Oppure è solo una mia fantasia, costruita su una frase finita lì per caso, forse una semplice citazione. Ma ci credo poco.
La più vicina è la signora Anita, maestra in pensione, un po’ saccente ma sveglia, molto occupata con la parrocchia. Difficile che sia lei, ma poi chi può dirlo? Poco più in là c’è Monica, grande appassionata di gialli e noir. Di lei so che si è trasferita da Milano per sposare uno di qui. Donna fine, figura snella, occhi chiari e luminosi. Certe esitazioni, certi sussulti però fanno pensare che sia meno convinta di quanto vuol far credere della sua nuova vita. Seduto in fondo c’è un uomo che viene spesso ma dà poca confidenza, non siamo mai andati oltre i saluti. Dimostra una settantina d’anni e ha un volto liso e impenetrabile. Si chiama Giuseppe ma per tutti è “il professore”.
Al suo stesso tavolo c’è Arturo, ex impiegato del catasto, che passa ore a sfogliare riviste di ogni tipo. Ha un viso molle e rubizzo da bevitore e se ne esce con esclamazioni o commenti a voce alta, a cui a volte qualcuno risponde ma più spesso cadono nel vuoto.
Tra gli scaffali ci sono anche una signora obesa che ha un’aria sempre scontenta, e una madre in compagnia della figlia adolescente, con cui viene ogni tanto a scegliere dei libri. La madre ha una voce un po’ ansimante, come se fosse in perenne ansia per qualcosa, o forse ha un problema di salute. Poi, seduti davanti al Pc, due giovani magrebini che vengono qui per comunicare con le famiglie o solo per stare al caldo, in questa algida fine di dicembre. A volte mi chiedono aiuto per un documento. So che problemi hanno ma escluderei che quella frase l’abbiano scritta loro. Mi aspettavo anche meno gente in biblioteca nel pomeriggio della Vigilia, quando tutti sembrano presi dai preparativi per la festa, in questo paese di tremila anime perso fra i monti. Un posto tranquillo. Così almeno credevo fino all’altro giorno, quando ho fatto il ritrovamento.
È già scesa la sera di uno dei giorni più corti dell’anno e dalla finestra vedo brillare in controluce radi fiocchi di nevischio, il bianco dei tetti ancora incappucciati dalla nevicata della settimana scorsa che spicca contro il cielo basso e scuro. Poi riprendo a osservare i presenti. Continuo a pensare che possa trattarsi di uno di loro e sono in pena. La Vigilia di Natale può essere un momento difficile per le persone sole. Non riesco a immaginare un modo per capire chi sia quello che cerco, e quando anche l’avessi individuato con certezza, cosa potrei fare per lui? Poi mentre registro il prestito dei tre volumi scelti da Monica mi si accende la lampadina: le schede… la prova della calligrafia! In un istante ho deciso e mi alzo, parlo a voce alta e col tono più disinvolto che posso.
«Scusate ma approfitterei di questo momento di pace per farvi compilare le nuove schede della biblioteca. Poi aggiornerò con calma lo schedario elettronico».
I presenti mi guardano un po’ stupiti, qualcuno non ha capito bene e mi chiede di ripetere. Lascio credere che sia un’iniziativa prestabilita e in parte è vero. Pensavo di farlo dopo le feste ma le nuove schede le ho già, e rompo l’involucro di uno dei pacchetti comprati in cartoleria.
Rimango stupito di come si mostrano tutti condiscendenti. Arturo si accosta per primo alla mia postazione e scrive compiaciuto, con una calligrafia minuta. Monica compila nervosamente la sua scheda, mettendo in mostra il polso ingioiellato. La signora Anita la studia con aria sospettosa. Il professore, sempre serio e distaccato, per scrivere inforca gli occhiali che ha appesi al collo con una catenella, e dietro di lui si preparano gli altri, mentre armato di un sorriso conciliante raccolgo con cura i cartoncini che potrebbero contenere la chiave del mistero. In pochi minuti abbiamo finito, mancano all’appello solo i giovani magrebini, ma la scheda per il prestito dei libri è di certo l’ultimo dei loro pensieri.
Ci siamo. Scorro le schede con la mano che mi trema. Confronto le calligrafie con quella del biglietto, che tengo al riparo del Pc. Trasalisco e il cuore mi batte forte quando trovo quella che cercavo. La stessa con cui è stata scritta la frase, che continuo a rileggere anche se mi si è incisa nella mente: «Più niente da dire, più nessuno a cui dirlo. Perché continuare?». Parole dall’accento irrimediabile, dettate da un dolore che pare senza via d’uscita.
Spingo indietro la sedia e prendo un respiro profondo. Sempre senza farmi vedere riapro il libro in cui ho trovato il biglietto, il romanzo di uno scrittore ungherese che era nella pila dei volumi rientrati dal prestito. Ero certo di scoprire in un attimo chi lo aveva restituito, e invece no. Non l’avevo registrato, e non me ne capacitavo. Poi mi sono accorto che avevo fatto lo stesso con altri volumi, un giorno che dovevo avere la testa chissà dove.
Ora so che è stato il professore e di colpo sono certo che non si tratta di un appunto qualsiasi ma di un SOS, di un messaggio nella bottiglia. Adesso vedo solo lui, che è tornato a sedersi. I capelli grigi pettinati all’indietro, le sopracciglia arcuate nella concentrazione della lettura, le scarpe sformate in un modo che guardarle sembra impudico. Lo immagino nell’atto di scrivere quella frase. Lo sento mentre la pronuncia fra sé.
Anche la memoria ha ricevuto una scossa e ora ricordo che tempo fa mi ha chiesto dei libri di autori russi, poi di far venire col prestito interbibliotecario un volume in lingua originale. Una mattina avevo qui una classe di bambini delle elementari, con la maestra che gli leggeva delle storie. C’era solo il professore oltre a loro e quando i piccoli diventavano chiassosi o ridevano, alzava gli occhi con un’espressione ora ostile ora intenerita. Qualcuno deve avermi detto che vive solo, che è rimasto vedovo diversi anni fa.
E di colpo è tardi, oggi l’orario è ridotto ed è già tempo di chiudere. Infatti si fa avanti la signora Anita con una pila di libretti.
«Per i miei nipotini» mi spiega. «Sotto le feste c’è ancora più bisogno della nonna!».
Ci scambiamo gli auguri e mi dà la mano prima di andare, così poi tutti la imitano. Con la coda dell’occhio vedo che il professore esita, poi si accoda agli altri. Mi dice «Buon Natale», con una stretta breve e severa.
E adesso che faccio? Escono per ultimi i due magrebini che tirano su i cappucci delle giacche, inadeguate al freddo che c’è fuori, col nevischio che ora cade più fitto e scintilla nella luce del lampione. Dalla porta seguo con lo sguardo il professore che scende verso la piazza, avvolto nel pesante cappotto, le braccia dritte lungo i fianchi, la testa nuda. E di nuovo scelgo senza decidere. Mi vesto svelto, spengo le luci e corro fuori. Distinguo ancora la sua figura e accelero il passo, poi rallento quando vedo che punta verso il bar.
Dentro c’è parecchia gente. Ragazzi seduti a chiacchierare coi cellulari in mano, tavoli di anziani giocatori di carte e altri di passaggio, davanti a un caffè o a un bicchiere. Atmosfera calda, i decori dorati che sfavillano, la rituale eccitazione della Vigilia. Il professore è nell’angolo meno illuminato del bancone, seduto goffamente sull’alto sgabello. Continuo ad agire senza pensare e vado subito verso di lui, mentre è girato verso il banco e la giovane cameriera che gli versa un liquore. Quando si volta gli dico «Permette? Oggi è tutto pieno…» e scosto lo sgabello accanto al suo.
«Prego, si accomodi» fa lui impassibile. Ho una vampata di calore e mi libero del giaccone, mentre la cameriera è già in attesa dell’ordinazione.
«Lei cosa ha preso?» domando al professore. Mi risponde «Un brandy», e chiedo lo stesso per me. Bevo di rado superalcolici e mai prima di cena, ma così mi sembra di rendere meno grave che lo faccia lui. A vederlo così da vicino colgo i segni di trascuratezza di un uomo che vive solo, i peli che gli escono dalle narici, le sopracciglia cispose. E non posso fare altro che parlare.
«Ho notato che legge autori stranieri anche in lingua originale, è una dote che le invidio».
Lui si porta il bicchiere alle labbra con decisione ma poi beve un piccolo sorso, come per risparmiare il liquore. Dice «Mi sono laureato in Lingue. Da giovane ho studiato bene il russo, ma ho dovuto insegnare inglese tutta la vita».
Pronuncia la frase in tono ultimativo, come se non ci fosse altro da aggiungere. Io non demordo, anche se sento che per avvicinarmi davvero a lui, al contenuto del suo messaggio, occorrerebbero parole che non trovo.
«Io mi sono laureato in Storia e faccio ricerche di storia popolare, ma questo lavoro mi soddisfa. Mi piace incontrare tante persone, imparare a conoscerle… anche attraverso i libri…».
Il professore tace a lungo, beve in due o tre sorsate il brandy che io invece ho assaggiato appena. Quando la cameriera ritira il bicchiere vuoto sembra sul punto di ordinarne un altro ma poi desiste. Dice: «A me piaceva insegnare, stare sempre in mezzo ai giovani…». L’espressione fa capire che potrebbe dire molto altro, il tono che non ne vale la pena. E di colpo avverto la mia presunzione nell’indurlo a parlare controvoglia. Anche la mia grande scoperta mi appare futile se non posso fare niente per lui. Non credo nemmeno più che quel biglietto lo abbia lasciato per me, ma solo per se stesso. E già il il silenzio si appesantisce, quando l’idea che disperavo di trovare mi si affaccia alla mente.
«Avrei bisogno del suo aiuto».
Il professore si assesta sullo sgabello, si schiarisce la voce prima di rispondere.
«Il mio aiuto? Non saprei… C’è qualcuno che ha bisogno di lezioni?»
«Non si tratta di questo. È da un po’ che pensavo di chiederglielo…» mento io. Poi mi spiego meglio, con lui e con me stesso. Non sento le voci del locale, non vedo più nessuno. Siamo noi due soli.
«Sto lavorando sulle lettere dei prigionieri di guerra e ne ho trovato una serie a cui sono accluse delle paginette scritte in russo. Non ci capisco neanche una parola. Lei mi aiuterebbe?», e sto dicendo la verità.
Da tempo aspettavo di tradurre quei foglietti ingialliti, infilati nelle buste come quello che il professore ha lasciato o dimenticato nel libro.
Lui si toglie il cappotto e non sa dove appoggiarlo, alla fine se lo stende sulle ginocchia. Sembra turbato, interdetto e quando si decide a parlare la voce è molto diversa da prima.
«Sono stato tante volte là, quando c’era il regime sovietico. Ho vissuto un anno a San Pietroburgo che si chiamava ancora Leningrado. Era un altro mondo. Tanta miseria, ma anche delle biblioteche bellissime…»
«Mi farebbe davvero un piacere grande, se non è troppo disturbo» continuo io, e lui «No, tutt’altro!». Ora il suo volto tradisce un’emozione trattenuta, ma non del tutto nel tono con cui mi domanda «Ma quando? Voglio dire… più avanti, o presto?».
«Prima possibile. Subito dopo le feste» gli dico. «Sono certo che lei non avrà difficoltà…».
Ma ora il professore mi interrompe, si alza, dice «Senz’altro, con piacere», e richiama l’attenzione della cameriera, insiste per offrire lui le consumazioni. Non mi guarda negli occhi mentre mi tende la mano, e questa volta la stretta è lunga e decisa. Dice «Allora grazie, a presto» e raggiunge svelto l’uscita.
Io rimango a sorseggiare il mio brandy. Quando ho finito di bere esco e vedo che adesso nevica a larghi fiocchi. Si è già formato un velo bianco sul selciato.