Le anime arrivano al Purgatorio in un’incisione di Gustave Doré - archivio
Dopo la sarabanda infernale di «ferri uncinati [che] graffiano e lacerano e torcono» (Sanguineti) l’approdo al «sereno aspetto » ( Purg. I, 14) del cielo australe ove sorge la montagna del Purgatorio si apre al sorgere di un’alba che «faceva tutto rider l’orïente» (I, 20); quell’aurora palpitante di tenero candore –«dolce color d’orïental zaffiro » (I, 13) è per Borges il più bel verso della Commedia – non solo sembra ricondurre all’età dell’oro nel brillare di stelle (le quattro virtù cardinali) «non viste mai fuor ch’a la prima gente» (I,24), ma si prolunga di riverberi nel «tremolar de la marina» (I,117). È un istante, quel baluginio, che Mario Luzi coglie come primo degli incanti e “incitamenti” dell’Antipurgatorio: «Qualcuno sulla pagina del mare / traccia un segno di vita, figge un punto» ( Il Purgatorio. La notte lava la mente, 1990). Nell’indugiare, così tipico in chi cerca la vera via, dei pellegrini sulla spiaggia dell’altissimo monte: «Noi eravam lunghesso mare ancora, /come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora» (II, 10-12), l’angelo stesso si presenta non già come súbita epifania, bensì come lento disvelarsi, dapprima lontano punto luminoso sulla linea dell’orizzonte: «colta m’apparve, s’io ancor lo veggia, / un lume per lo mar venir sì ratto / che ’l muover suo nessun volar pareggia» (II, 16-18). Non fa a tempo Dante a chiedere ragguaglio alla sua guida che «rividil più lucente e maggior fatto» (II, 21).
Quella luce è candore: «Poi d’ogne lato ad esso m’apparìo / un non sapeva che di bianco…» (II,22-23), secondo i termini che il poeta stesso – seguendo san Tommaso– applica alla giustizia divina, albedo ( Monarchia I, XI, 1), che è purissima trasparenza di luce. Nel racconto di Virgilio appaiono poi le ali come altissime vele: «Ecco l’angel di Dio: piega le mani; / omai vedrai di sì fatti officiali. / Vedi che sdegna li argomenti umani, / sì che remo non vuol, né altro velo / che l’ali sue, tra liti sì lontani. / Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo, / trattando l’aere con l’etterne penne» (II, 29-35). Sono trascorsi pochi canti da quel monologo di Ulisse che rievoca un altro viaggio, là di perdizione («de’ remi facemmo ali al folle volo», Inf. XXVI, 125), qui di purificazione senza più gravame: «...e quei sen venne a riva / con un vasello snelletto e leggero, / tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva» (II, 4-42). Un varcare che è quasi un volare «snello» e senza peso: tale è il segno nuovo del Purgatorio, di un desiderio orientato al bene, annuncio di speranza: «...ma qui convïen ch’om voli; / dico con l’ali snelle e con le piume / del gran disio, di retro a quel condotto / che speranza mi dava e facea lume» ( Purg. IV, 27-30).
Le anime infatti che l’angelo conduce cantano il salmo della liberazione dalla schiavitù d’Egitto: “In exitu Isräel de Aegypto”, inno che Dante sceglie come emblema stesso del cammino della propria Commedia nel raccomandarla, nell’Epistola XIII, a Cangrande della Scala. È un momento di grande solennità del poema, come grande fu la responsabilità per gli Angeli di obbedire nell’istante che seguì la creazione, secondo la magnifica chiosa di Romano Guardini: «Agostino dice di lui [angelo] ch’egli si trova in “una vagante sospensione di informità spirituale” [ Conf. XIII, 5, 6]. Così era l’angelo in quell’istante impensabilmente breve “dopo” la sua creazione da parte di Dio e “prima” della sua decisione di fronte a Dio. L’angelo di cui parla la Scrittura è quello che nell’amore, nella fede e nell’obbedienza, “si è convertito a Colui da cui ogni vita proviene e da Lui illuminato è divenuto vita bella, “cielo dei cieli”; così Agostino nel medesimo luogo» ( La guida verso l’isola della purificazione). In Dante, osserva ancora Guardini, «i suoi angeli sono ancora misteriosamente grandi, hanno però abbandonato l’atteggiamento ieratico per passare al dinamismo» ( ibid.).
In effetti questi «officiali» sono incaricati, ad ogni cornice, di togliere dalla fronte del pellegrino la «P» del corrispondente peccato capitale appena rimosso dall’anima del viator. Tanto veloce è il «celestial nocchiero», altrettanto vividamente danzanti sono gli angeli del Paradiso: «vid’io più di mille angeli festanti» ( Par. XXXI, 131). La Commedia è l’ultimo grande trionfo angelico del Medioevo (anche se vasta sarà ancora la loro figurazione in pittura sino alle apoteosi dei cieli barocchi); il paradiso stesso è «la regïon de li angeli dipinta» ( Par. XX, 102), «in questo miro e angelico tem- plo» ( Par. XXVIII, 53); ove ascendono e discendono festanti innumeri schiere di angeli quali evoca la “scala di Giacobbe” descritta nel libro della Genesi (XXVIII, 12), che rinasce al sommo del Paradiso dantesco: «Infin là su la vide il patriarca / Iacobbe porger la superna parte, / quando li apparve d’angeli sì carca» (XXII, 70-72). Questo mondo angelico, di annuncio e di soccorso, di potenze che mettono in moto i pianeti, come descrive Dante nel Convivio («dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo di Venere, sì come movitori di quello», II, II, 7) è tanto più prezioso poiché essi dispaiono poco a poco nella modernità. Nella centralità crescente della “similitudine” tra l’uomo e Dio portata dall’Incarnazione: «[Il Verbo di Dio] è a Dio simile nella potenza e simile all’uomo nella debolezza» ( Vigilio di Tapso), l’angelo sarà - sempre più - ombra dell’uomo: «l’Angelo […] quanto alla natura o quanto alla sostanza, può dirsi uomo perfetto; e l’uomo Angelo imperfetto» (Roberto Bellarmino, Scala di salire con la mente a Dio per mezzo delle cose create, 1615, grado IX, cap. II).
Il congedo sarà infine da riconoscere nei distici di Silesio: «Via, via, Serafini, voi non potete saziarmi; / via, via, Angeli tutti e ciò che in voi affascina: / io non voglio di voi: solo io mi tuffo / nell’increato mare della nuda divinità» ( Il pellegrino cherubico, I, 3: Dio solo può bastare). E tuttavia l’angelo resta “necessario”, nunzio e ultima traccia del divino: anche quando «i santi poi bisognerà cercarli / tra i cani», anche allora «gli angeli resteranno inespungibili / refusi » (E. Montale, Laggiù, datato “16/XII/1969”; in Satura, 1971). Così vedeva l’angelo, incrollabile rifugio, nella cattedrale di Chartres, il poeta Rainer Maria Rilke: «La bufera che scuote la forte cattedrale / come la furia del pensiero che nega, / ci spinge a un tratto con più tenerezza / verso di te, attratti dal tuo sorriso, // angelo sorridente, figurata presenza» ( L’Ange du méridien). Del resto, uomini, «non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla»? ( Purg. X, 124-125).
Le terzine eponime
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
“In exitu Isräel de Aegypto”
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto
Purgatorio II, 43-48