Il ritorno del figliol prodigo nel dipinto di Rembrandt conservato all’Ermitage di San Pietroburgo.
Cè un tempo per ogni cosa, quello della Quaresima è il più adatto per intraprendere una sorta di gioco. Una sorprendente caccia al tesoro che dura tutta la vita e riserva un premio che non finirà. È suggestivo il percorso delineato da Fabio Bartoli, apprezzato sacerdote romano, in un libretto controcorrente: Per fortuna c’è la Quaresima! Riflessioni inattuali (Ancora, pp. 96, euro 16). Una lunga lettera immaginaria indirizzata a un ragazzo della sua parrocchia per riflettere su un mistero tanto grande quanto spaventoso, quello del male, che in realtà interpella tutti, giovani e adulti, credenti e non. Per dirla con il buon Chesterton, le favole non servono per ricordare ai bambini che esistono i draghi, i bambini lo sanno benissimo; le favole servono a insegnare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. «Così è della Quaresima - spiega Bartoli - gli uomini lo sanno benissimo che esiste il male, hanno tanti di quei demoni dentro che non possono proprio sbagliarsi su questo, ma la Quaresima serve a ricordarci che quei demoni possono essere vinti! ». Parte da qui un viaggio paradossale che smonta una serie di “tristi” luoghi comuni sul tempo quaresimale. A cominciare da un tema decisamente «fuori moda», come il pentimento.
Di che cosa dovrebbe pentirsi l’uomo moderno?
«Il pentimento è un bisogno profondamente umano. Spalanca la porta a una gioia che non è l’allegria da talk show, ma quella profonda e vera. L’equivoco è pensare che si tratti di un’auto-punizione, mentre biblicamente è il ritorno al Padre, è rivivere l’esperienza di essere amati da Lui. Pentirsi non provoca dolore. Il dolore nel cuore dell’uomo c’è già. È proprio il pentimento a metterlo in luce: l’afflizione più grande oggi è vivere come se non ci fosse un Padre. Non si tratta allora di pentirsi dei propri peccati, se mai è una conseguenza, ma del “peccato” al singolare che è il rifiuto del Padre».
Non basta, scrive lei, dire di credere in Dio…
«Esatto. Non crediamo in Dio. Ma in Dio-Padre. Oggi c’è tanta paura di Dio, lo sentiamo come nemico e rivale, o come un tiranno che opprime. Sia il li- bertino che il moralista hanno questa idea. Solo che il primo si ribella, il secondo si sottomette, ma sono nello stesso peccato: quello di non riuscire ad avere una relazione col Padre. La Quaresima è un periodo per aprire gli occhi sulla menzogna più grande, la sparizione del Padre. Un dolore che apre alla felicità, è il paradosso di cui parlavano i Padri della Chiesa».
Ma quali sono gli altri demoni da cui guardarsi?
«Sono diversi, ma alla fine sono tutte maschere della grande bugia su Dio. Tuttavia il demone più insidioso, quello che va alle radici della vita e dell’amore è la bugia sul sesso. Il capolavoro del Diavolo è essere riuscito a trasformare questo dono spettacolare in una forma di schiavitù e di possesso: basta guardare alla pornografia on-line che coinvolge oggi sempre di più i ragazzini. O la pratica abominevole dell’utero in affitto: importiamo in Europa un bambino alla settimana e tolleriamo senza problemi questo mercato di nuovi schiavi».
Come si spiega questa deriva?
«Viviamo in un’epoca in cui tutto è un diritto, anche quello di soddisfare i propri capricci. È curioso che il diritto nato proprio per contenere l’egoismo dei singoli e difendere i più deboli oggi viene usato in senso contrario. Ma attenzione a demonizzare le persone. La verità è che viviamo in una cultura triste».
Tra le “armi” suggerite in Quaresima ci sono digiuno, preghiera, elemosina.
«Tutte e tre sono state contraffatte. Ma il digiuno è senz’altro la più inattuale e la più decisiva. È la pratica che mi insegna a dominare la mia natura, mi insegna che non sono un fascio di bisogni e che c’è qualcos’altro. Per poter pregare e fare l’elemosina veramente bisogna digiunare, è un presupposto delle altre due. Ma attenzione a non cadere nel moralismo: non si tratta di rinunciare a tutto o solo ai dolci... Quello che conta è stare nello spirito del digiuno: sottomettere il corpo allo spirito. Stare più con se stessi e allenarsi al distacco dalle cose. Da questo punto di vista non sarebbe affatto male un digiuno dai social network».
La sparizione del Padre è oggi anche specchio dell’assenza dei padri…
«Senza dubbio. In questo una responsabilità ce l’hanno anche le donne. È nel momento in cui le donne hanno smesso di essere donne che gli uomini hanno smesso di essere padri. Perché il maschio è tendenzialmente egoista. La natura l’ha fatto così. Senza una donna che lo spinge a proteggere e a prendersi cura dell’altro il maschio si avviluppa sempre più nel suo egoismo».
In un mondo in cui le relazioni sono sempre più fragili e tutto è lecito, come trasmettere il valore del sacrificio e della rinuncia?
«La prima cosa è educare i bambini a non essere egoisti e a essere generosi. I bimbi questo ancora lo recepiscono perché in loro c’è un desiderio spontaneo di comunione: sanno che se vogliono condividere devono essere disposti a dare. Rinunciare è una conseguenza: rinuncio a qualcosa per un bene più grande. Educare i bambini alla comunione è il punto di partenza: giocare, studiare, vivere insieme con gli altri. Una delle cose più terribili dal punto di vista educativo oggi è la solitudine in cui i nostri bambini vengono costretti: piazzati davanti alla Tv si relazionano solo con se stessi. Parliamo loro della bellezza della vita in comune, verrà da sé anche il bisogno di Dio».
Lei suggerisce un allenamento spirituale graduale.
«È un metodo utile in Quaresima ma vale per tutta la vita. Molte persone falliscono nella loro vita spirituale perché si pongono obiettivi troppo alti. Invece bisogna fare un passo per volta. Il genitore non dà al figlio subito l’automobile, si comincia dal triciclo. È la “legge della gradualità” che, come insegnava Giovanni Paolo II, ci impone di evitare il perfezionismo. Diceva giustamente Berdjaev: ciò che è perfetto non può in alcun modo essere detto cristiano. Anzi, cristiano è proprio ciò che assume l’imperfezione e la rende segno di Dio. È proprio attraverso le nostre ferite, i nostri difetti, le nostre fragilità che si mostra l’onnipotenza divina. Quando sono debole è allora che sono forte, diceva san Paolo. Assumere con gioia la nostra debolezza è la condizione per iscriversi alla caccia al tesoro di cui parla Gesù nel Vangelo: la fede. Scoprire il Padre è essere felice per sempre».