Assistenza a un malato di Covid presso il centro di terapia intensiva di Tor Vergata, a Roma - Ansa/Giuseppe Lami
Adesso, forse, il nemico si allontana. Adesso c’è il vaccino, e il lavoro, la vita ricominceranno. In questo inizio d’estate respiriamo con incredulo sollievo, come svegli da un incubo, e in molti cominciamo a dirci: forse tornerà tutto come prima. «Che tutto torni a essere come prima di quel cambiamento insopportabile, che tutto torni a essere abitudine, cosa nota, e non ci sia più traccia di quella novità che spezza le ossa e entra nel sangue..», scriveva alla fine della sua vita Vasilij Grossman. 'Come prima', preghiera o tentazione? Perché è innegabile che il tempo della pandemia abbia scoperchiato come una tempesta le nostre vite, sconvolto la certezza di avere il mondo fra le mani, e riportato in superficie domande che da tanto l’umanità, almeno quella occidentale, nella sua maggioranza non si poneva più. Fragilità, sofferenza, morte ci hanno affrontato di colpo, come briganti. Molti hanno perso la vita, molti una persona amata. In loro e in tanti altri questi mesi hanno sollevato con urgenza una domanda: per cosa viviamo? Siamo polvere, o a cosa siamo destinati? Questa domanda, nelle immagini dei morti di Bergamo portati via con i camion, ci si è posta brutalmente. Non ci eravamo abituati. Qualcuno, forse, 'la' domanda non se l’era fatta mai, oppure l’aveva scacciata. L’ultimo libro di Julián Carrón, C’è speranza? Il fascino della scoperta( Nuovo Mondo, pagine 160, euro 4,00), raccoglie la domanda non detta, la domanda sottostante a un anno e mezzo di angoscia: c’è speranza? Ma di una speranza si parla, che vale per ognuno: per chi è morto, magari solo, e per chi è nel lutto, e per chi, chiuso in casa, è sprofondato nella tristezza. Gli Esercizi del 2021 della Fraternità di Comunione e Liberazione, trascritti in queste pagine, scavano dentro la questione che in certi giorni si è fatta ineludibile. A tanti lontani dalla tradizione cristiana, e anche a non pochi, abituati a dare per scontata la propria fede. Mentre negli ospedali assediati, nelle case lasciate vuote dai moribondi, nel suono ossessivo sirene di ambulanza, una speranza formale non poteva bastare. Né poteva bastare l’ottimismo delle prime ore, l’'andrà tutto bene' - giacché non è andato tutto bene. (L’ottimismo però, come Carrón ricorda citando il cardinale Daniélou, non è speranza: che è tutt’altra cosa, ben altra). Il fatto è che la pandemia, scrive l’autore, ha sollevato il problema radicale: «Noi non abbiamo bisogno solo di cure mediche, abbiamo anche bisogno di guardare alla sofferenza e alla morte senza crollare davanti a esse». Urgenza che nel 2020 si è posta in modo collettivo, come ai tempi della guerra o delle pesti. L’imprevedibile, incredibile bussare della realtà del nostro essere uomini alla porta, mentre eravamo, per lo più, alquanto distratti. Di colpo è venuta la sera, ha detto il Papa il 27 marzo 2020 in piazza San Pietro deserta. Ma questa notte, non è stata in alcuni almeno il tempo per risvegliarsi? Per risvegliare chi era lontano da Dio, e anche chi gli è vicino. Numerose lettere di giovani e adulti, riportate nel libro, testimoniano come un sussulto, come l’aprirsi di una crepa in abitudini e certezze ormai precostituite. L’asse su cui le domande ruotano è la stessa, antica: siamo fatti per il niente, o per la vita eterna? E, in Cristo morto e risorto, io credo davvero? Giacché questa è l’alternativa fra l’essere e il nulla che si gioca, come diceva Giussani, «nel crocevia del nostro io». E tuttavia il fatto di Cristo risorto dalla morte resta così immenso, indicibile, così 'ingenuo', così impresentabile, fra gli uomini del Terzo millennio. Nel terremoto, però, la domanda si è ripresentata, bruciante: al dimentico e al cristiano. Perché nessuno, scrive Carrón, può sfuggire completamente al dubbio: «Ma chissà mai - si chiede - che proprio il dubbio, che preserva l’uno tanto quanto l’altro dal rischio dell’isolazionismo, non divenga il luogo della comunicazione». Chissà, infatti: come, negli ospedali della primavera 2020, i pensieri di medici e infermieri e malati, credenti o no, si incrociavano e i loro sguardi, e le domande silenziose. Chi arrancava in una certezza che dava per scontata, chi magari apriva gli occhi per la prima volta. C’è speranza? Questa domanda ci ha percorso silenziosamente. Non soltanto una speranza, di guarigione, di ripresa, ma la grande speranza, di cui scrisse Benedetto XVI nella Spe Salvi. C’è speranza? Carrón: «Per verificare se la speranza cristiana non delude dobbiamo affrontare quello che la realtà non ci risparmia, nell’incontro e nello scontro con le circostanze, specialmente quelle inevitabili». Si è giocata in questi mesi una carsica battaglia, oltre a quella contro il virus. Una domanda ci ha percosso, quasi tutti, forse tutti. Qualcu- no l’ha censurata, qualcuno se l’è portata dietro, pensierosa compagna. Nella paura, si cerca lo sguardo di chi ti è vicino: e se quello è generoso, e in pace, e mostra uno strano coraggio, sorge spontaneo il chiedersi come fa. Così la fede in Cristo si trasmette, in una testimonianza che spesso non ha bisogno di parole. É l’amico che ti resta vicino, è il medico che ti guarda come un uomo e non un corpo guasto, è il collega che ti abbraccia nella tua stanchezza. Come fai, chiedi allora, a restare così, in un tale marasma? È nei momenti estremi che la speranza in Cristo affiora negli sguardi, in semplici uomini, che però stanno al mondo in un modo diverso, e destano stupore. Chissà quali semi, ora invisibili, germineranno da questo tempo doloroso. Carrón sembra riconoscerli in tante lettere ricevute da amici vicini e lontani. Perché se anche, come speriamo, la vita e il lavoro e la gioia ritorneranno, dopo tanto dolore chissà, se tutto sarà esattamente 'come prima'. O se in qualcuno non resterà la memoria di un istante in cui ha avvertito in sé l’aprirsi di una ferita, di una crepa. A noi uomini, le crepe fanno paura. Ma, canta Leonard Cohen, «C’è una crepa in ogni cosa / è così che entra la luce».