sabato 13 marzo 2021
Prima di essere il simbolo dell’Ira il giovane Sands era mezzala della Stella Maris di Rathcoole, la squadra della sua scuola a Belfast, città del “quinto Beatles” George. Poi scelse la lotta politica
Nella foto cerchiata: alla destra di O’Neil poi calciatore del Wolverhampton, che tiene la coppa, un giovanissimo Bobby Sands

Nella foto cerchiata: alla destra di O’Neil poi calciatore del Wolverhampton, che tiene la coppa, un giovanissimo Bobby Sands

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Quelli erano gli anni in cui George Best infiammava gli stadi di tutta Europa con la casacca rossa del Manchester United. Nei campetti di Belfast, sua città natale, c’erano schiere di ragazzini che sognavano di imitarlo. Uno di loro abitava poco distante da casa Best e qualche anno dopo sarebbe passato alla storia anche lui. Ma per ragioni assai lontane dallo sport. Da ragazzino, alla metà degli anni ’60, Bobby Sands, futuro simbolo dell’attivismo nordirlandese, divideva il suo tempo libero tra le gare podistiche e la squadra di calcio della sua scuola, la Stella Maris di Rathcoole, un sobborgo di Belfast che a quei tempi era una zona mista in cui vivevano famiglie cattoliche e protestanti. Giocava mezzala, era esile, non aveva i piedi buoni ma correva veloce e soprattutto non mollava un pallone agli avversari. In breve tempo divenne un pilastro di quella squadra, la Star of the Sea, dove giocavano i cattolici come lui ma anche i protestanti e persino un mormone.

All’epoca non era solo la miglior squadra giovanile di calcio dell’Irlanda del Nord ma anche un simbolo di tolleranza e un antidoto al settarismo dilagante in una città lacerata dalla violenza. L’allenatore, Liam Conlon, non avrebbe mai consentito che la politica inquinasse la sua squadra. Chiunque poteva giocare a condizione che ci sapesse fare con un pallone ai piedi. Qualche anno fa la loro storia ha ispirato anche un musical di Andrew Lloyd Webber intitolato The Beautiful Game. Ma di lì a poco l’odio avrebbe spazzato via per sempre il sogno dei ragazzi della Star of the Sea trascinando nel baratro le loro vite. C’è una foto in bianco e nero in cui Sands se ne sta seduto in mezzo ai suoi compagni, a braccia conserte, i capelli corti e un sorriso appena accennato. Quell’immagine non ritrae soltanto un gruppo di giovani calciatori ma anche un bivio della storia.

Oggi ci costringe a rimpiangere vite perdute e intere generazioni travolte dal conflitto. Alla destra di Sands è seduto Tommy O’Neill, con in mano l’ennesima coppa vinta dalla squadra. Di quel gruppo solo lui riuscì a far carriera finendo in Inghilterra, nei ranghi del Wolverhampton. Alla sua sinistra c’è Michael Atcheson, che qualche anno dopo si sarebbe unito ai paramilitari protestanti dell’Ulster Volunteer Force (UVF) finendo in carcere con una condanna a diciassette anni per aver messo una bomba in un pub. Dietro, in piedi, si riconoscono altri suoi compagni che furono vittime della violenza di quegli anni. C’è Terry Nicholl, un discreto difensore prima che entrasse anche lui nei ranghi dell’UVF e si facesse cinque anni di carcere per rapina a mano armata. E poi il miglior centrocampista della squadra, Raymond McCord: suo figlio è stato ammazzato nel 1997 in un regolamento di conti tra protestanti per una storia di droga. Paddy Davison ha dovuto piangere invece suo fratello, ucciso a colpi di pistola. Alcuni anni fa McCord raccontò di quella volta che Sands aveva affrontato a muso duro un avversario reo di aver offeso un suo compagno protestante. «Non rifarlo mai più», gli aveva gridato.

Ma mentre quei ragazzi correvano sui campi di calcio il mondo stava lentamente crollando intorno a loro. Nell’estate del 1969 le famiglie cattoliche di Rathcoole furono cacciate dal quartiere, le loro case requisite o bruciate per far posto ai protestanti. La Stella Maris pagò un altissimo tributo di sangue al conflitto: ben ventisette studenti della scuola finirono uccisi, quasi tutti per mano dei paramilitari lealisti. Bobby Sands, sempre più emarginato perché cattolico, abbandonò la scuola e il calcio nel giugno 1969. Andò a lavorare come apprendista meccanico ma anche lì fu vittima di un crescendo di atti intimidatori, finché la sua famiglia non fu costretta ad abbandonare la propria casa a suon di minacce. Sands era talmente lontano dal fanatismo da aver corso per anni in un gruppo podistico protestante denominato Willowfield Temperance Harriers. Ma nel 1972 entrò nell’IRA e si ritrovò di fatto a combattere contro molti suoi ex compagni di squadra.

Quando finì in carcere iniziò a raccontare al mondo le ragioni della sua lotta scrivendo testi in prosa e in poesia (recentemente tradotti e raccolti nell’antologia Bobby Sands. Scritti dal carcere, (Edizioni Pagina Uno. Pagine 270. Euro 18,00, traduzione dello scrivente e da Enrico Terrinoni). In uno di questi testi - intitolato La solitudine del mezzofondista storpio - racconta la sua grande passione per lo sport e per la corsa campestre. «La vittoria era mia e mi sentivo come un campione olimpico. Avevo quattordici anni. Sembra ieri, non che siano passati così tanti anni da allora. Oggi mi sento come un cadavere vivente. Quelle gambe che una volta correvano per chilometri, scavalcavano fossati e si arrampicavano sulle colline, che un tempo tiravano calci a un pallone e amavano il nuoto e le discipline sportive, desiderano rivivere e tornare a praticare quelle attività. […] Corro un’altra gara nella mia mente e lo squallore che mi inghiotte e mi avvolge ride di me, mentre fisso incredulo le mie gambe e il mio corpo nudo. I rigori dell’isolamento totale nel Blocco H hanno preso il sopravvento». Non molto tempo dopo, diventato il leader dei prigionieri politici cattolici nella prigione di Long Kesh, lo stesso Sands guidò lo sciopero della fame in carcere che esattamente quarant’anni fa culminò con la sua morte e quella di nove suoi compagni.

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