La versione francese dell'“Oracolo” di Amelot - .-
Se consideriamo da una certa distanza che cosa accade in gran parte del mondo attuale, e non soltanto o anzitutto nei grandi scenari della geopolitica ma anche solo nei rapporti fra gente comune, dobbiamo arrenderci al fatto che la prudenza non è più una virtù. Prevalgono arroganza, eccesso, vanagloria, competizione, desiderio di averla vinta sempre e comunque. La prudenza forse è considerata una virtù da perdenti o da deboli in un mondo che sembra conoscere ormai soltanto la volontà di potenza. Bisognerebbe allora inaugurare, cominciando dalle scuole ma senza dimenticare parrocchie, gruppi sociali e politici, l’ora settimanale di formazione alla prudenza. E si potrebbe adottare come testo l’Oracolo del gesuita spagnolo vissuto nel Seicento Baltasar Gracián. Dalla metà degli anni Ottanta per circa un decennio, quello postmoderno, si sentiva evocare spesso nelle discussioni colte, con un certo snobismo anche, l’Agudeza, una qualità non del tutto innata – come scrive Gracián, «non si nasce già fatti; ci si porta a perfezione di giorno in giorno» –, ma frutto di una precisa arte di costruzione interiore che comprendeva ingegnosità, sottigliezza, concettosità. Il Seicento fu il secolo dell’“acutezza” e lo divenne tanto di più dopo la pubblicazione del trattatello Agudeza y arte de ingenio di Gracián. In quel termine si insegnava come conciliare uno stile della sfera etico-politica attraverso il “buon gusto”, un ideale di bellezza su cui formare la società. E per Gracián doveva essere il modello di una Civitas meno diabolica e più tendente a Dio.
Trascorsi trent’anni da quando Gracián andava di moda in Italia, ci tocca dire che i suoi consigli hanno potuto ben poco contro il degrado della nostra democrazia. Gracián andava forte, per esempio, fra quelli che celebravano la “Milano da bere” che ha anticipato la caduta di Tangentopoli: è lecito pensare che i richiami al gesuita spagnolo fossero intesi più come “acutezza” nel camuffare la corruzione dietro un’architettura di sagaci pensieri oltre i quali i buoni principi erano poco o niente applicati. Già nel 1968, secondo Marc Fumaroli, i consigli di Gracián avevano trovato una «nuova attualità per un gruppo influente di Happy few, critici radicali del capitalismo globalizzato o manager postmoderni». Il resto è andato da sé. La prudenza, per Gracián, aiuta a raggiungere la felicità interiore e a essere veri cristiani. È il contrario della pavidità: l’uomo prudente si rivela proteiforme, come nel ritratto di Tiziano. Egli rifiuta l’arroganza e l’abuso del potere: «Il vantaggio del comando: poter far del bene più di tutti gli altri», scrive il gesuita.
Nell’Oracolo manuale o dell’arte della prudenza, che Adelphi ripubblica nella versione di Giulia Poggi (pagine 364, euro 22,00), compare anche un libro nel libro: Marc Fumaroli, scomparso quasi un anno fa, aveva scritto nel 2010, condensando i suoi interessi di studio di una vita, un notevole saggio di oltre duecento pagine a corredo dell’edizione francese di Gallimard, do- ve prese in esame la ricezione dell’opera nei secoli della nostra modernità. Qualche breve cenno sull’opera. Venne pubblicata in castigliano nel 1647 sotto uno pseudonimo abbastanza scoperto: Lorenzo Gracián, per evitare di doverlo sottoporre alle regole della Compagnia di Gesù, e fu stampato col patrocinio del mecenate aragonese Don Vincenzo Juan de Lastanosa, raffinato lettore e collezionista di quadri, fra i quali Tiziano, Tintoretto, Caravaggio, Rubens, Correggio, i Carracci... Era in dodicesimo, oggi si direbbe in formato tascabile.
Fumaroli pone l’Oracolo accanto agli Esercizi del Loyola, ma diversamente dal fondatore della Compagnia Gracián voleva dare ai laici una guida spirituale e mentale per vivere meglio in un mondo che, segnato dalla Guerra dei Trent’anni ormai alla fine, stava ormai uscendo dall’ancien regime delle monarchie di diritto divino verso un’epoca moderna dominata dalla ragion di Stato. Gracián, allergico a ogni clericalismo, voleva indicare ai laici cristiani, «senza piegarli ai rigori della vita dei religiosi» (Fumaroli), un’arte del toreare, e il toro ça va sans dire, è il mondo moderno. Un manuale del torero cristiano per portarlo a dominare la retorica e la dialettica nella fossa dei leoni (anche ecclesiastici). E il secolo dove si disputa di libertà umana e Grazia, talvolta contrapponendole, oppure invocando l’autonomia dell’agire umano, come già nel Principe di Machiavelli.
La ragion di Stato dell’antimachiavellismo cattolico «voleva moderare sia con la legge naturale che con la legge divina l’esercizio dell’energico e crescente potere temporale moderno, pur senza privare quell’esercizio della forza e dell’astuzia di cui non può vare a meno il governo degli uomini sulla terra». Un cauto realismo, insomma. Nella traduzione francese, edita nel 1684 col titolo L’homme de cour, l’Uomo di corte, lo storico Nicolas Amelot de la Houssaye, esperto di classici e non del tutto schierato col modello monarchico, ne diede una versione corretta ma compiacente con Luigi XIV: questo lo mise al riparo dai malumori che l’Oracolo aveva suscitato a corte. Fu, a suo modo, il tentativo di conciliare l’inconciliabile: un Principe privo di qualsiasi moderazione con una ragion di Stato senza eccessi. Dopo Richelieu, il Re Sole sembrava aver la strada spianata, e la percorse senza freni, tuttavia i giansenisti anteponendo la Grazia divina a quella del sovrano diventarono per lui una spina nel fianco.
Se l’Oracolo ebbe influenza anche su Nietzsche lo si deve alla traduzione di Schopenhauer, uscita dopo la sua morte nel 1863, ma in realtà l’opera di Gracián era già conosciuta in Europa per le traduzioni uscite a Parigi, Londra, Lipsia tra il 1684 e il 1687. D’altra parte, se il gesuita è tornato in auge nel nostro secolo un po’ lo si deve al fatto che sia stato anche visto come una sorta di “Nietzsche cattolico”, così lo definì lo scrittore spagnolo Azorín nel 1902.
La dissimulazione e l’abilità retorica sono un’arma tagliente nelle mani di Gracián, che talvolta potrebbe sembrare in contraddizione con se stesso. Ci si può sorprendere, trattandosi di un gesuita, quando scrive che «la prudenza consiste nel conformarsi all’occasione », ma subito precisa il senso quando scrive che «non bisogna vivere secondo principi astratti, a meno che non sia per favorire la virtù, né si deve sottomettere la volontà a leggi ferree» (288). Questo vivere secondo l’occasione non è una forma del “lassismo” che Pascal contestava all’arte del compromesso dei gesuiti, ma una critica al totalitarismo dei sistemi chiusi, quindi anche alla deriva giacobina che negli ultimi secoli ha spesso sollevato i furori di popolo. E Gracián suggeriva essere cauti nel rivendicare la verità di popolo, è pericolosa.
«Pensare con i meno e parlare con i più. Il saggio in piazza non parla con la sua voce, ma con quella della stupidità comune, per quanto nel suo intimo vada smentendola» (43): non suggerisce doppiezza e opportunismo, ma di restare vigili quando prevalgono passioni collettive (solitamente cieche), dominando le proprie. È un invito alla sinderesi, a essere rapidi nel riconoscere il bene e il male. E ancora: siate sempre di parola (116), ma mai giocare a carte scoperte (98), perché non è né utile ne piacevole (3), trovare subito il buono in ogni cosa (140), l’uomo perbene non usa mai armi vietate (165), meglio peccare per difetto che per eccesso (41), ogni vittoria è odiosa (e se è sul tuo superiore può esserti fatale) (7), le scorpacciate di comune buon senso non soddisfano gli accorti (28). L’Oracolo di Gracián sarebbe un ottimo manuale per formare politici nuovi e meno prosaici di oggi; ma ancor più servirebbe al popolo dei social media, che spesso non conosce né sobrietà né prudenza.