Valter Malosti, attore e regista di “Se questo è un uomo” da Primo Levi in scena a Torino / Tommaso Le Pera
Un distinto signore in cappotto e gilet grigio entra in scena, finalmente a casa, con una grande valigia. È tornato da un lungo viaggio e inizia a raccontare con tono inizialmente pacato la storia di una migrazione. Ma subito la casa scompare per lasciare posto a un tappeto di valigie di piombo su cui l’uomo si muove, solo ma circondato dall’eco dei ricordi sempre più strazianti di un esodo forzato, doloroso, violento, fatto di viaggi estenuanti, aguzzini spietati, famiglie divise, campi di sterminio in cui si langue e si muore. «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo». Con sbigottimento, ci accorgiamo che le parole scritte più di 70 anni fa da Primo Levi nel romanzo autobiografico Se questo è un uomo, proiettate sulle spalle del protagonista aperte a mo’ di croce, descrivono perfettamente non solo la deportazione nazista degli ebrei, ma anche la situazione in cui vivono migliaia di migranti di oggi. «Quello di Levi è un viaggio nel profondo dell’uomo» ci spiega il regista e direttore di Tpe – Teatro Piemonte Europa Valter Malosti che fa subito centro con il suo Se questo è un uomo, «condensazione scenica» come la chiama insieme al coautore Domenico Scarpa, di una pietra miliare della letteratura mondiale che ha appena debuttato al Carignano di Torino. Beninteso, non ci sono né attualizzazioni forzate, né aggiunte superflue nell’omaggio di Malosti al grande scrittore torinese nell’occasione del centenario della nascita (che cade il 31 luglio). C’è, soprattutto, la lingua elegante e asciutta, cesellata nel suo italiano raffinato, potente nel suo apparente distacco. L’attore, grazie a un’interpretazione dapprima sommessa e poi via via più drammatica nel suo rigore ricco di chiaroscuri, trasforma con misura millimetrica le pagine del libro in teatro, dando loro corpo, suono e, quindi, vita. Con Se questo è un uomo, scritto nel 1947 e poi rielaborato nel 1958, il torinese Primo Levi apriva il portone di Auschwitz al mondo facendo conoscere l’orrore e la follia dell’Olocausto.
La sua prima versione teatrale assoluta è in scena sino al 12 maggio per la Stagione del Teatro Stabile di Torino al Teatro Carignano, coprodotto da Tpe – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile di Torino e Teatro di Roma (a novembre sarà all’Argentina di Roma), con la consulenza del Centro Internazionale di Studi Primo Levi e la collaborazione del Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Primo Levi, del Polo del ‘900 e di Giulio Einaudi editore. «L’Italia non è molto attenta a questo centenario, questo testimonia del momento delicato che stiamo vivendo. Ci siamo accorti strada facendo che questo è un lavoro oggi necessario: siamo orgogliosi e anche un po’ spaventati» ci racconta Valter Malosti, regista e protagonista dello spettacolo, ma anche ideatore della serie di spettacoli dedicati sino al 12 maggio dal TPE a primo Levi, fra cui Il sistema periodico con Luigi Lo Cascio, dal 7 maggio al Teatro Astra di Torino. Se questo è un uomo si rivela un monologo, fra oratorio e tragedia greca, che fila via d’un fiato in un paio d’ore, ricompensato non solo dagli applausi del pubblico, ma, aggiunge il regista, «dall’abbraccio a teatro di Renzo, il figlio di Primo Levi. È stata la cosa più bella».
Ed è proprio la voce dello scrittore a riecheggiare nel timbro mite, ma saldo di Malosti, che ha preso il posto di Paolo Pierobon che ha dato definitivo forfait per una infiammazione alle corde vocali. Spettacolo che, nella semplicità funzionale della scena di Margherita Palli, ruota tutto intorno al protagonista capace di far emergere «la polivalenza acustica» di Levi attraverso una ampia gamma di registri: la descrizione oggettiva della realtà, il racconto lineare dei fatti, la messa a fuoco dei singoli personaggi e dei loro sentimenti, i pensieri più intimi dell’autore e, infine, la volatilità dei sogni pesanti di sofferenza. Sogni che si materializzano in un sé stesso senza volto, vestito con gli stracci a righe del deportato. Malosti/ Levi nel suo nudo sbigottimento si fa strada da solo nella babele del campo descrivendo i suoni, le minacce, gli ordini, il rumore della fabbrica di morte. Ma in questa discesa in un Inferno dantesco, come viene descritto nel romanzo, il protagonista è supportato da un sapiente sottofondo di suoni che ci immergono nel lager, e da luci taglienti che sottolineano il ritmo della paura e della sorpresa per l’incomprensibile “banalità” di un male che opera per azzerare la dignità umana. Come contrappunto lirico e cristallino alla crudezza del testo stanno tre affascinanti madrigali originali, accompagnati da altrettante proiezioni di video arte, creati da Carlo Boccadoro a partire dalle poesie che Levi scrive dopo il ritorno dal campo, negli anni 1945-46. «Sentivo il bisogno di un coro perché questo racconto sembra teatro antico, la tragedia greca classica» aggiunge il regista. Che per chiudere il cerchio, aggiunge in coda due estratti dal primo e dall’ultimo capitolo della La tregua di Levi, ovvero la liberazione da parte dei russi e l’incubo di un ritorno al lager. «Primo Levi già negli anni ’70 e ’80 si era accorto che qualcosa incominciava a non andare, quando sente la necessità di riscrivere I sommersi e i salvati, cercando di ampliare il discorso per essere ben compreso – conclude Malosti –. Lui reagisce colpito dal rinascere di antisemitismo e odio razziale. Cose che anche ai nostri giorni accadono con lo stesso grado di pericolosità per la convivenza, la crescita e la formazione». Diceva Primo Levi: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo».