Lo scrittore Primo Levi (31 luglio 1919 – 11 aprile 1987).
Alla notizia della scomparsa di Primo Levi, scrisse Claudio Magris sul Corriere della Sera, il 12 aprile 1987: « Se questo è un uomo[ è] un libro che reincontreremo al Giudizio Universale»; accentuava così la biblica memoria che emana da quelle pagine, e dalle poesie di Primo Levi: «Quanti sono i tuoi giorni? Li ho contati:/ Pochi e brevi, ognuno grave di affanni;/ Dell’ansia della notte inevitabile,/ Quando fra te e te nulla pone riparo» ( Il canto del corvo, 1953). Quella «ombra nera » l’ha seguito inesorabile: «Ti seguirò ai confini del mondo,/ Cavalcando sul tuo cavallo/ […]/ Fino a che tu pure finisca,/ Non con un urto, ma con un silenzio».
A trent’anni di distanza, l’opera di Primo Levi assume un rilievo che va oltre il pur essenziale ruolo della 'parola del testimone'; è anzi un esercizio di rigore storico sulla memoria e sulla fragilità umana, come richiama acutamente la sezione «La zona grigia» de I sommersi e i salvati (1986), che si chiude con una meditazione sull’«Uomo presuntuoso e mortale» descritto attraverso l’immagine shakespeariana di Misura per misura: «…ammantato d’autorità precaria,/ di ciò ignaro di cui si crede certo,/ - della sua essenza, ch’è di vetro». In questo ghetto di miseria e fragilità siamo tutti, concludeva Levi, e il ghetto è cintato, e fuori è per tutti la morte.
Il grande merito dell’opera sua è quello di aver trovato, come Dante, come Shakespeare, la forza di estrarre dall’orrore dell’Inferno quanto vi dimora di Ognuno e di Tutti, raccogliendo all’essenziale una parola scarna, come nella poesia di Paul Celan, una parola «che stringe» al cerchio dell’indicibile: «Tutti insieme, fecero un passo avanti./ 'Indietro, via di qui, fantasmi immondi:/ Ritornate alla vostra vecchia notte';/ Ma nessuno rispose, e invece/ Tutti in cerchio, fecero un passo avanti» ('Erano cento'). Come Celan, sentiva che il tempo, nel volgere delle generazioni, sottraeva forza al testimone, che la memoria s’allentava: «Nessuno/ testimonia per il/ testimone» (Celan, 'Aureola di cenere' da Svolta del respiro).
Proprio per questo la sua acuta analisi, allora profetica, raggiunge e interroga il nostro presente: «Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o sel- vagge» ( I sommersi e i salvati, Conclusione). A questo oblioso fluttuare oppose tenacemente una pedagogia razionale con le sue Storie naturali (1966», con Il sistema periodico (1975), con La chiave a stella (1978): parole esatte, oggetti circoscritti, razionalità esercitata perché la dimostrazione sia ripetibile. E tuttavia anche lì l’ingresso dell’organico, della sua instabilità, rende vana talvolta la sequenza dell’esperimento: «Non ottenni che vapori immondi, noia, umiliazione, ed un liquido nero e torbido che intoppava irrimediabilmente i filtri, e non mostrava alcuna tendenza a cristallizzare, come secondo il testo avrebbe dovuto. Lo sterco rimase sterco, e l’allossana dal nome sonante un nome sonante. Non era quella la via per uscire dalla palude […]. Meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica » ('Azoto', da Il sistema periodico).
Ne riconobbe l’ansia etica Italo Calvino che, scrivendo a Levi il 12 ottobre 1974 sull’assetto definitivo del Sistema periodico, lo definì un’«autobiografia chimica (e morale)». Alla critica è parso che queste due esperienze, quella del testimone, quella dello scienziato in cerca di ordine e di forma, siano difficilmente componibili; eppure basterebbe leggere le poesie di Ad ora incerta (1984) per trovarle insieme: parole avvitate, tenute insieme da una volontà vigile e che tuttavia sempre corre al precipizio della solitudine: «Parole-spada e parole-veleno/ Parole-chiave e grimaldello,/ Parole-sale, maschera e nepente./ Il luogo dove andiamo è silenzioso./ O sordo. È il limbo dei soli e dei sordi./ L’ultima tappa devi correrla sordo,/ L’ultima tappa devi correrla solo» ('Voci', 1981). Primo Levi è stato un uomo di, agognata sempre, libertà; rispetto anche alle proprie radici: «Vengo implicitamente criticato perché assimilato. Lo sono. Non esistono nella Diaspora ebrei che non lo siano, in maggiore o minor grado: se non altro, per il fatto di parlare la lingua del Paese in cui vivono. Rivendico, per me e per tutti, il diritto di scegliere il livello di assimilazione che meglio si adatta alla loro cultura ed al loro ambiente» ( Gli Ebrei italiani, lettera alla redazione di 'Commentary', 1985, in risposta ad un articolo di F. Eberstadt, Italian Jews).
La sua antologia La ricerca delle radici( 1981) ha meridiani che convergono su due poli: 'Giobbe' e i 'Buchi neri', l’infinita pazienza del giusto che soffre, l’inspiegabile che tutto inghiotte. Tra i due estremi, nei meridiani centrali, gli autori che più hanno attestato che «l’uomo soffre ingiustamente»: Eliot, Babel’, Celan, Rigoni Stern; e gli autori che hanno attestato la «statura dell’uomo»: Marco Polo, Rosny, Conrad, Vercel, Saint-Exupéry. Con il titolo L’avventura tecnologica, di Roger Vercel riproduce un brano da Remorques (1935), chiosando: «Di Roger Vercel ignoro tutto, perfino se è vivo o morto, ma sarei contento se fosse vivo e sano e continuasse a scrivere, perché mi piace il suo scrivere […]. Remorques […] l’ho letto tutto intero nella notte spaventosa e decisiva in cui i tedeschi [ad Auschwitz] esitarono fra l’ucciderci e il fuggire, e decisero per la fuga». Roger Vercel (1894-1957) aveva scritto, il 16 ottobre 1940, nel giornale L’Ouest-Eclair, un articolo in prima pagina, 'Lectures pour demain', in cui aveva preconizzato « l’élimination du Juif, en tant que penseur et écrivain »; per questo dopo la guerra fu destituito dall’insegnamento. Nessuna vicenda rende miglior onore alla grandezza magnanima di Levi, nella libertà che, nell’accoglierlo nella propria antologia, conferì a quell’istante di verità personale sopra ogni viltà: Primo Levi, uomo giusto.