John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) - archivio
La notizia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy si abbatté inattesa sul mondo intero, provocando sconcerto e inquietudine. Il 22 novembre 1963 a Dallas parvero infatti spezzarsi le speranze di pace portate dal giovane presidente degli Stati Uniti. A sessant’anni dall’evento un volume curato dallo storico Giovanni A. Cerutti (del quale pubblichiamo uno stralcio dall’introduzione) raccoglie per la prima volta gli articoli delle migliori firme del giornalismo italiano usciti nei giorni successivi. Kennedy, Dallas 1963, L’assassinio del presidente nella stampa italiana (Interlinea, pagine 184, euro 14, 00, con testi inediti di Kennedy e Aldo Moro) restituisce quello sconcerto e quell’inquietudine. Le riflessioni - tra gli altri, di Enzo Biagi, Luigi Salvatorelli, Raniero La Valle, Furio Colombo, Paolo Monelli, Alberto Ronchey, Giuseppe Lazzati ed Eugenio Scalfari - delineano i caratteri di una società in divenire, che vedeva nel modello dell’America kennediana un punto di riferimento. Il volume sarà presentato oggi, 22 novembre, a Milano (libreria Vita e Pensiero dell’Università Cattolica, ore 18) dal curatore in dialogo con Alessandro Zaccuri e Roberto Cicala.
Nell’immaginario della nostra epoca, ma anche nella memoria culturale, la figura di John Fitzgerald Kennedy è indissolubilmente associata all’intricata questione delle responsabilità del suo assassinio, nella convinzione, che non di rado anche nelle ricostruzioni più serie sfiora l’ossessione complottista, che ci sia qualcosa che sfugge alle ricostruzioni ufficiali, che ci debba per forza essere un’altra verità. Così, la figura di Kennedy paradossalmente scompare, la sua azione politica e l’impatto che ebbe negli Stati Uniti e nel mondo scolorano nell’indistinto, il suo ruolo storico e il suo profilo morale non sollecitano più riflessioni utili al nostro tempo.
Eppure il pensiero e la cultura politica di Kennedy hanno rappresentato un punto di svolta epocale nella consapevolezza che le società occidentali hanno delle sfide che si trovano di fronte, tanto da influenzare profondamente anche i Paesi ostili al modello occidentale e da porsi come riferimento per orientarsi nel nostro presente. Nel sessantesimo anniversario dell’assassinio del pre- sidente Kennedy pare, dunque, indispensabile recuperare queste dimensioni, nella convinzione che quella data acquista tutta la sua pregnanza soltanto se messa in relazione con la prospettiva politica e morale che l’attentato di Dallas ha cercato di distruggere, restituendo, in questo modo, tutta la portata e la drammaticità dell’evento. (...)
In più di una cronaca, anche tra quelle non incluse in questa piccola antologia, viene ricordato quanto Adlai Stevenson avesse implorato Kennedy di non andare in Texas. Quello che aveva colpito nella folgorante immagine della Nuova Frontiera era l’inedito collegamento che Kennedy stabiliva tra la politica interna e la politica internazionale; anzi, l’idea che una credibile azione internazionale a favore dei principi liberali dovesse per forza di cose basarsi su una politica interna che ponesse al centro la rimozione delle diseguaglianze come naturale conseguenza della centralità dei diritti umani. Tutte le diseguaglianze, sociali quanto di origine etnica e razziale. Se gli uomini sono uguali, sono uguali sotto tutti i profili. Ma un’uguaglianza intesa in senso liberale, sostenuta da un’azione pubblica che impedisca qualsiasi tipo di discriminazione e assegni pari dignità a chiunque nell’esercizio della cittadinanza, qualsiasi sia la posizione occupata nella società, ma che non interferisca artificialmente nelle dinamiche sociali, limitando le libertà, e con le libertà il potenziale di progresso.
Il confronto con l’Unione Sovietica era innanzitutto il confronto tra due modelli di società condotto da Kennedy con l’incrollabile convinzione che il modello democratico interpretasse più compiutamente il nucleo di valori più autenticamente umani, ma anche con la consapevolezza, per citare Bernardo Valli, che «la preoccupazione di quello che il comunismo può fare alla democrazia non deve far dimenticare il pericolo che gli stessi democratici possono farle correre sotto la spinta della paura». Confronto che assumeva in quegli anni cruciali profili del tutto inediti in conseguenza dello sviluppo delle tecnologie nucleari e che richiedeva, quindi, un nuovo tipo di realismo e la ricerca di spazi di convivenza. Realismo che, però, non poteva rimuovere la questione di fondo che in un sistema inter- nazionale sempre più interconnesso la presenza di Stati che non accettano i principi democratici e non rispettano i diritti umani impedisce il consolidamento di una pace fondata su solide basi e in grado di garantire la possibilità delle donne e degli uomini di poter concepire senza costrizioni i propri piani di vita. Tutte istanze che Kennedy aveva posto fin dall’inizio alla base del suo programma e che l’esperienza di governo aveva affinato e rese sempre più solide, come appare dalla lettura degli appunti preparati per il discorso che non poté pronunciare a Dallas e che viene qui riprodotto nell’ultima sezione.
Ma la Nuova Frontiera per una parte dell’opinione pubblica italiana non era solamente il progetto politico della potenza egemone del blocco occidentale; era soprattutto un sicuro riferimento per l’evoluzione del nostro sistema politico. «[L’]accettazione della sfida posta alla nostra epoca dal sistema totalitario non poteva […] non lasciare una profonda traccia negli uomini che sentono quanto facilmente la politica della libertà degeneri in accettazione passiva dell’ordinaria amministrazione d’inte- ressi»: nell’analisi di Aldo Garosci è facile leggere in controluce l’inadeguatezza del centrismo postdegasperiano e l’attesa che si profilasse una formula politica in grado di superarlo. Il 4 dicembre avrebbero giurato i componenti del primo ministero Moro – il primo governo di centro-sinistra organico dopo la fase dei governi Fanfani che si reggevano sull’appoggio esterno del partito socialista – e nei quotidiani di quei giorni le notizie dell’attentato sono affiancate a quelle delle trattative per la formazione del nuovo governo e in più di un commento il nesso tra la presidenza Kennedy e la svolta politica in corso viene richiamato con forza.
L’attesa non è solo quella di un mutamento del quadro politico, ma, sulla spinta della presidenza Kennedy, di una modernizzazione complessiva della società italiana. Sarà proprio Aldo Moro a commemorare Kennedy, dopo il vibrante e nobile discorso del presidente Bucciarelli Ducci, nella seduta della Camera del 12 dicembre: «quasi che la morte, una simile morte nel mezzo della battaglia, avesse rivelato d’improvviso la più vera fisionomia, l’autentica statura morale e politica del giovane capo della nazione americana». Impossibile rileggere oggi queste parole senza essere sopraffatti da un sentimento di pietà e disillusione: pietà per il destino dell’uomo che pro- nunciò quelle parole, disillusione per il destino di questa nostra povera patria.