Ha debuttato sulle scene a soli undici anni, nel Leon di Luc Besson, scolpendo nella memoria di un pubblico planetario la propria immagine di bambina prodigio. Oggi, a 34 anni e un Oscar conquistato cinque anni fa con Il cigno nero, Natalie Portman è quella che si potrebbe definire una donna tosta, padrona del proprio destino.Refrattaria alla vita sociale hollywoodiana («La leggerezza per me – ama ripetere – è uno stato d’animo, non il tempo passato a un party»), decisa ad essere di esempio per la sua generazione, ha un’opinione precisa su molte cose, parla più volentieri di politica che della vita privata, registra con il suo iPhone la stessa intervista che state registrando voi, per essere sicura che scriviate esattamente quello che ha detto. Divisa tra cinema d’autore – Allen, Burton, Minghella, Nichols, Gitai, Kar Wai, Anderson, Aronofsky, Malick, – e commedie o blockbuster americani – Star Wars, Thor – Natalie non ha esitato a prendersi una lunga pausa dal lavoro in due occasioni importanti: quando ha intensificato gli studi per conseguire nel 1999 la laurea in Psicologia ad Harvard e quando, in attesa del figlio Aleph – che ora ha tre anni –, si è goduta la pace della famiglia per parecchi mesi. D’altra parte a sedici anni aveva detto no a Robert Redford per L’uomo che sussurrava ai cavalli (il ruolo andò poi a un’ancora sconosciuta Scarlett Johansson) per interpretare Anna Frank a Broadway. E non ci ha pensato due volte a trasferirsi a Parigi («Dove ci sono librerie in ogni strada ») quando il marito – il ballerino e coreografo Benjamin Millepied, sposato nel 2012 – ha accettato di dirigere il ballet dell’Opéra. A due mesi dal suo arrivo nella capitale francese un attacco terroristico ha colpito la sede di “Charlie Hebdo” e un negozio kosher e per la Portman, ebrea nata con il nome di Natalie Hershlag a Gerusalemme (dove ha vissuto fino a tre anni prima di trasferirsi negli Stati Uniti con il padre medico e la madre artista), profondamente legata alle proprie radici, è stato uno choc enorme. Per questo tanti suoi colleghi americani l’hanno apprezzata per il coraggio, quando all’ultimo festival di Cannes, ha presentato il suo primo film da regista, Una storia di amore e tenebra, tratto dal romanzo più intimo di Amos Oz, quello in cui racconta la propria infanzia con una madre affettuosa e depressa che si tolse la vita a soli trentanove anni, sullo sfondo della nascita dello Stato d’Israele.Essere attrice e icona di stile per Dior non era più abbastanza. Da tempo la Portman sentiva l’esigenza di passare dietro la macchina da presa e l’occasione è arrivata quando sette anni fa è rimasta folgorata dal libro di Oz. «Mentre lo leggevo – racconta – mi era facile immaginare il film che avrei voluto fare. Ed è stato proprio il linguaggio del romanzo a ossessionarmi, il modo in cui Amos mette in connessione le parole che raccontano il tempo, la trasformazione delle cose, in storie che toccano tutti noi, anche se riguardano una famiglia e una nazione diversa. Per questo ho voluto girare il film in ebraico, la lingua più musicale, misteriosa e poetica che conosca». E di lingue la Portman ne parla cinque, compreso il francese, il tedesco e il giapponese.«Ho incontrato per la prima volta Amos nella sua casa di Tel Aviv, davanti a una tazza di tè, e gli ho parlato del mio progetto. Ci siamo incontrati molte altre volte e lui mi ha spinto a sentirmi libera di raccontare la mia storia. Mi ha solo chiesto di non chiedergli perché sua madre abbia messo fine ai suoi giorni. Possiamo immaginare tante cause, ma in fondo quel gesto estremo resta un mistero ». Osservando l’unica foto di Fania Klausner diffusa dallo scrittore all’indomani dell’uscita del romanzo, è evidente la somiglianza con Natalie, ma non è questa la ragione che ha spinto l’attrice a interpretare la protagonista. «Ci assomigliamo perché siamo due donne ebree originarie dell’Europa Centrale». Per la Portman i panni di Fania le hanno permesso di entrare in una comunione profonda con la propria storia familiare, con i nonni materni arrivati negli Usa dall’Austria e dalla Russia a fine Ottocento, con il padre originario della cittadina polacca di Rzeszów, tra Cracovia e Leopoli. In Israele Natalie è tornata a vivere dieci anni fa, per studiare la sua lingua natale all’Università Ebraica di Gerusalemme («Una città scritta nei miei geni») e per girare Free zone di Amos Gitai. Purtroppo in quell’occasione non le fu possibile parlare ebraico nel film, e anche per questo era urgente per l’attrice debuttare alla regia con «una lettera d’amore in ebraico». Ma se Una storia di amore e tenebra non ha ancora trovato un distributore, neppure negli Usa, Knight of cup, il film di Malick dove la Portman interpreta forse il grande amore di uno sceneggiatore hollywoodiano alla ricerca di valori perduti e del senso della propria esistenza, arriverà nelle nostre sale a dicembre. «L’incontro con Terrence, così generoso e pieno di talento, ha cambiato completamente la mia visione del mestiere di attore. Normalmente su un set se accade qualcosa di imprevisto si blocca tutto. Malick invece non dà mai lo stop, filma aerei che passano, animali che entrano in campo, la pioggia che arriva all’improvviso. Ha la grande capacità di trasformare l’inaspettato, persino l’errore, in una grande occasione creativa. Per questo ruolo mi ha suggerito di vedere La strada di Fellini, che già conoscevo, e Il posto di Olmi, che invece è stato una straordinaria scoperta». Con Malick girerà anche il prossimo film, ma la vedremo prima nei panni della vedova Kennedy in Jackie del cileno Pablo Larraín e nel western Jane got a gun, film diretto da Gavin O’Connor dove la Portman ricopre anche il ruolo di produttrice.
L'attrice premio Oscar diventa regista: «In Amos Oz ho trovato le mie radici»
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