domenica 13 agosto 2017
Nuovi studi sulla lingua e i linguaggi della politica al tempo del web. Antonelli indaga la retorica che esalta errori e brutalità, Veltri e Di Caterino svelano i meccanismi utili al consenso in rete
Populismo, di tutti e di nessuno
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Sconfiggere il populismo? È una parola. Una sola, però. Chiara, efficace e semplice, come esigono le leggi di quella che il linguista Giuseppe Antonelli definisceVolgare eloquenza fin dal titolo del suo nuovo saggio (Laterza, pagine 138, euro 14,00). Il rimando è al padre Dante e alla sua ricerca dell’inafferrabile idioma di una nazione, l’Italia, che è esistita nell’esperienza dei parlanti prima che nei trattati politici. Ma “volgare” in senso stretto, come inclinazione alla brutalità e al turpiloquio, è anche l’“eloquenza” adottata dalla politica italiana a partire dalla Seconda Repubblica o giù di lì, con un avvicendamento rapidissimo tra le scorciatoie del gergo da tv commerciale e la sbrigativa franchezza dei social media. Il risultato è quello che conosciamo e del quale abbiamo riscontro in ogni momento: trionfo degli “emologismi” (le parole-chiave, impiegate come un emoticon in una conversazione su WhatsApp), brusca rottura con le tradizioni preesistenti (una volta bastava una riga per distinguere le argomentazioni di un democristiano da quelle di un comunista), prevalenza della velocità sull’approfondimento e via elencando. «L’italiano populista – annota Antonelli, che a rigore non di soli populisti si occupa – è altro da quello popolare perché non solo evita gli errori, ma li usa come nella retorica classica si usavano i vari ornamenti stilistici». Da quando Antonio Di Pietro smise la toga per scendere in politica, insomma, sbagliare un congiuntivo è diventata una virtù, ma la questione non è unicamente italiana, come dimostrano i rimandi di Antonelli alla “post-verità” (o, meglio, “verità alternativa”) del presidente Trump, che già alla fine degli anni Ottanta, quando era solamente “The Donald”, magnificava il ricorso all’“iperbole veritiera”: esagerate, esagerate, qualcosa resterà. Certo, erano i tempi della televisione trionfante, oggi anche la guerra tiepida con la Corea del Nord si combatte a colpi di tweet, ma non è un caso che il nome di Trump, insieme con quelli dei nostri Berlusconi e Grillo, ricorra spesso non solo in Volgare eloquenza, ma anche nel ragionamento, per molti versi complementare, svolto da Giuseppe A. Veltri e Giuseppe Di Caterino nel recentissimo Fuori dalla bolla (Mimesis, pagine 108, euro 11,00), dove in questione non è tanto la lingua, ma il linguaggio: quello delle reti sociali, appunto, rispetto alle quali l’ingenuità dilaga e la disinformazione è la regola. Su Facebook e compagnia ognuno è libero di dire la sua, di esporre le sue idee, di far valere le sue opinioni. Ma a chi appartengono veramente le convinzioni che esprimiamo sulla rete? Siamo noi a pensarla così oppure siamo vittime di un’illusione collettiva? Sociologi entrambi di formazione, Veltri e Di Caterino operano attualmente in ambiti diversi: il primo insegna all’Università di Trento, il secondo è attivo come consulente politico. Hanno lavorato al libro insieme, nel tentativo – riuscito – di mettere a disposizione del lettore non specialista una serie di nozioni indispensabili per capire che cosa sta effettivamente accadendo nell’internet della politica. Qualcosa potrà forse apparire intuitivo, ma il punto di partenza è più che condivisibile: come mai, si domandano gli autori, quando si tratta delle scienze sociali ci si accontenta del richiamo ai pur nobili padri fondatori e non si dà mai conto delle ricerche più aggiornate? Delle quali, peraltro, c’è un gran bisogno per non cadere nelle trappole dell’inganno e dell’autoinganno. Nessuna opinione si forma mai nel vuoto, tanto meno nell’epoca del sovraffollamento informativo e informatico. Già prima che dilagasse il cosiddetto slacktivism (l’“attivismo pigro“ di quanti si accontentano di un commento o di un “mi piace”), pensare con la propria testa era un’impresa abbastanza complessa. C’era da prendere consapevolezza del peso esercitato dall’appartenenza a una determinata comunità o dalle specifiche esperienze personali, per esempio, ma non meno importante era ed è la capacità di disinnescare meccanismi che, per il loro essere inconsci, risultano tanto più difficili da individuare. Prendete il confirmation bias, che è la tendenza a recepire esclusivamente i dati, più o meno frammentari, che rafforzano le nostre convinzioni, sottovalutando o addirittura ignorando ogni altro elemento. Atteggiamento di per sé rischioso, che diventa pericolosissimo nel momento in cui la fonte è costituita da fake news, le false notizie più o meno intenzionalmente diffuse sul web. Il problema, osservano Veltri e Di Caterino, è che allo stato attuale questo spregiudicato stile comunicativo è appannaggio pressoché esclusivo dei movimenti populisti, mentre l’area progressista non sembra in grado di elaborare strategie convincenti. Con un’eccezione vistosa, costituita dalle campagne presidenziali di Barack Obama, sintesi perfetta di argomentazione razionale e appello emotivo. Non a caso, è stato proprio Obama a mettere in guardia contro il vicolo cieco delle “bolle”, o casse di risonanza, all’interno delle quali rimbomba la voce di chi parla e non è più possibile ascoltare quelle degli altri. Ripartire non è facile, ma se si dovesse scegliere una parola (una sola: semplice, efficace, chiara), questa sarebbe probabilmente “educazione”. I più giovani, sottolineano Veltri e Di Caterino, non devono affatto imparare la tecnica necessaria ad adoperare computer e smartphone, ma non possono essere lasciati senza gli «strumenti per valutare l’attendibilità delle informazioni online». Non che gli adulti vadano forte in questo campo, intendiamoci. Lo dimostra, nell’analisi proposta da Antonelli, la loro disponibilità ad assecondare il “falso movimento” dei popu-listi, la retorica paralizzante del «c’è chi dice non». Ma anche per impedire che abbia la meglio «il (non) partito dell’inazione» occorre educare. Occorre, prima di tutto, rieducarsi.

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