Lo scrittore milanese Andrea G.Pinketts, morto il 20 dicembre dell'anno scorso a 58 anni
Per uno di Taranto le serate dell’inverno milanese erano fredde e umide, sicché me ne andavo per locali o mi infilavo in qualche galleria d’arte o ancora leggevo il calendario degli eventi culturali sui quotidiani e mi imbucavo tra il pubblico. È stato così che una sera ho conosciuto Andrea G. Pinketts. Il locale si chiamava Post, in corso Garibaldi, era prevista la presentazione di un libro giallo, c’erano venticinque persone. L’orario diceva 20.30, ma dalle scale che portavano a un seminterrato lui scese verso le dieci. «Signoriii! Signori diamo inizio alle danze! Che lo show cominci!». Aveva questa voce potente che caricava come una molla e indossava un vestito chiaro con una cravatta sgargiante. Un cappello a tesa larga e il sigaro tra i denti. «Signoriii!». Con la destra teneva un boccale di birra e quella sera mi fece amare un libro che in condizioni normali non avrei nemmeno preso in considerazione. Conosceva anche le virgole di ciò che andava a presentare e quel momento era la consacrazione di un rito dove lui era il grande sacerdote e l’autore del testo uno sbiadito comprimario che se ne stava seduto in un angolo in silenzio osannante. A dispetto della sua aria guascona e finto aggressiva stare lì ad ascoltarlo mi provocò un senso di benessere.
Quell’uomo era un grande e non sapevo ancora perché, ma lo intuivo per istinto. Poco tempo dopo andai in libreria e comprai Il senso della frase e Il vizio dell’agnello. Due romanzi Feltrinelli che aveva pubblicato non da molto tempo e feci la conoscenza con Lazzaro Santandrea, l’alter ego di Pinketts, ma soprattutto venni a contatto con una penna straordinaria e un autore che sapeva fare letteratura senza spocchia, con ironia e con un senso di umanità che veniva fuori da ogni pagina per quanto noir. Diventai un suo adepto. Se cambiava locale, per le sue esibizioni, io cambiavo locale. Se presentava un suo libro in qualche libreria io c’ero. Ad avvicinarmi venivo preso da soggezione e alla fin fine mi bastava ascoltarlo cantare le canzoni di Califano o Fred Buscaglione tra una citazione di Dostoevskij e una di John Fante per respirare cultura, ma non quella artefatta e di maniera, bensì la cultura che avresti potuto apprendere standotene seduto a un tavolo in compagnia di Ernest Hemingway. Lui stesso era molto hemingwayano.
Grande carisma, un magnete che catalizzava tutti, un senso della vita da vivere a 360 gradi, uno sberleffo al dolore, alla morte e a sentimenti come l’invidia, l’odio e la cupidigia. Quando gli chiesi con una certa umiltà e timore reverenziale se volesse presentare il mio libro, il mio esordio narrativo, alcuni anni dopo, prima bluffò dicendo che non lo avrebbe mai fatto e poi mi abbracciò e mi disse che sì, mi avrebbe presentato ovunque e comunque. Non ho mai capito come la pensasse in tema di religione, ma aveva un animo cristiano più di molti farisei che conosco. La sua era una personalità concentrata sul bene, sul bene di chiunque. E più vedeva una persona in difficoltà più le andava incontro. Lo spirito cristiano, in senso ampio e alto, lo portava a comprendere gli ultimi. E gli altri lo ripagavano con una fedeltà spinta fino al parossismo. Personaggi variopinti bordavano la sua corte, ma Pinketts faceva capire a chiunque che lui era lì e su di lui si poteva contare.
Dopo Il senso della frase ho letto tutti i suoi libri. Scrivendo, ha messo in scena la commedia umana milanese come pochi. Gigioneggiando sulla pagina ha tirato fuori pennellate che resteranno. Il suo ultimo romanzo, E dopo tanta notte strizzami le occhiaie, è un omaggio alla vita e al suo mondo nel momento in cui deve aver compreso che la sua esistenza terrena andava esaurendosi. Eppure la sua vis comica non lo ha mai abbandonato e quando andai alla sua conferenza nell’atrio dell’ospedale Niguarda riuscì a farmi sorridere più volte con il suo modo irriverente di sbeffeggiare il cancro che lo aveva aggredito. Così come il suo personaggio letterario Lazzaro Santandrea, Pinketts non è vero che non aveva voluto crescere, piuttosto era cresciuto, e tanto, da un punto di vista personale, sociale e umano, ma aveva conservato l’essenza delle creature pure, i bambini appunto.
Quando mi è capitato di incontrarlo da solo, al bar Trottoir, l’ho trovato tragico, profondo e malinconico. Abbiamo sempre parlato di tutto e mi colpiva il suo modo di trovare il bello e il positivo in ogni circostanza. Mai una critica gratuita verso un collega. Gli altri scrittori li omaggiava e non c’era verso di fargli dire qualcosa di negativo su un’opera letteraria per quanto discutibile. Il suo carisma lo ha portato a diventare un personaggio pubblico, prima attraverso il Maurizio Costanzo Show, poi in vari altri programmi televisivi. Quando era in presenza di gente non si risparmiava e dava alla gente quello che curiosi e accoliti volevano: uno showman che non deludeva mai. Per lui l’alcol era una via per avvicinarsi ai miti che gli aveva fatto conoscere Fernanda Pivano, miti come Hemingway, Scott Fitzgerald, Kerouac, Faulkner, Bukowski, ma era anche una via di fuga da una timidezza di fondo tipica delle personalità complesse e schive.
Scriveva i suoi romanzi a penna, in stampatello, tenendo la penna come la potrebbe reggere un bambino. Aveva la sua sala di scrittura nel bar Trottoir, la sala Pinketts. La gente di notte arrivava per vedere lui. Il locale si riempiva e il suo tavolo era preso d’assalto da belle donne, scrittori alla ricerca dell’ispirazione perduta, narratori con il loro dattiloscritto inedito in mano, bevitori incalliti, umanità disarcionata dalla vita standard. A un anno dalla sua morte (ma uno come Pinketts non muore mai sul serio), mi piace ricordarlo quando sorrideva senza aprire la bocca e mi diceva: ho in mente una storia. Iniziava la stesura dei suoi romanzi sempre e rigorosamente il primo novembre, il giorno di Ognissanti, forse perché, anche grazie a quel suo modo unico e surreale di accostarsi al lato evangelico della realtà, Andrea G. Pinketts nel salpare coi i suoi deliri, fantasmi e racconti voleva avere accanto a sé una presenza ieratica e propiziatoria.