Il capello è bianco candido come il riflesso del Cupolone. Gli occhi azzurri come il cielo limpido di una Roma malinconicamente romantica (in stile “La Grande bellezza” di Paolo Sorrentino) che ha abbracciato Nicola Pietrangeli quando era un ragazzino dall’italiano incerto («mi chiamavano “Er Francia” quando giocavo a calcio con le giovanili della Lazio», ricorda), fuggito con la famiglia da Tunisi dove era nato, per scampare alla guerra civile. Il primo tennista italiano entrato nella Hall Fame, è figlio d’arte, papà Giulio, detto “Monsieur”, all’attività di imprenditore affiancava quella di coloniale e gentiluomo dei “gesti bianchi”. In casa Pietrangeli si parlava anche il francese e il russo, per via dalle nobili origini di mamma Anna, del casato dei De Yourgaince, esuli fuggiti a loro volta dalla Rivoluzione d’Ottobre. Questo e molto altro, si trova dentro l’album di famiglia di Pietrangeli che l’11 settembre compie 80 anni. Ma lo spirito è quello dell’eterno ragazzo, ambasciatore ufficiale del tennis italiano, giunto alla soglia di quello che definisce «il compleanno dei miei vent’anni per la quarta volta». Se chiudiamo gli occhi, ascoltandola, più che il campione di tennis sembra di risentire lo stesso timbro di voce di Marcello Mastroianni. «Me lo dicono in tanti e la cosa mi riempie d’orgoglio perché Marcello è stato un grande amico prima che il migliore attore del mondo. Per divertirci ci vestivamo uguali con i suoi vestiti dai colori sgargianti. Ci univa il comune senso della pigrizia». Eppure lei passa per uno dei personaggi più dinamici del nostro sport. «Ho fatto sempre la metà della metà di ciò che potevo fare. Del resto due sono stati i miei principi fondanti: “Lavorerei volentieri... Purtroppo non ne ho il tempo”, l’altro: “Non è importante essere ricchi, ma vivere come se lo si fosse”». Eppure il suo obiettivo era lavorare, come rappresentante della Lacoste. «Mio padre quando lasciammo la Tunisia perse tutto e per farci mangiare accettò un posto da becchino al cimitero dei francesi. Grazie ai suoi trascorsi da tennista René Lacoste si ricordò di lui e gli diede la rappresentanza per vendere le sue maglie in Italia. In un anno ne piazzò una cifra spaventosa, 280mila. Io volevo emularlo, ma lui mi disse: “Nicola non è mestiere per te”. Papà voleva una cosa sola, che giocassi a tennis fino a novant’anni».Aveva visto giusto: le consigliava una professione con meno problemi, piena di successi e con possibilità di maggiori guadagni. «Il vero problema fu quando scoprii che l’anno dopo che papà aveva perso la rappresentanza, la Lacoste in Italia vendette un milione di magliette. Se solo avesse firmato una carta per cento lire a capo... Con il tennis ai miei tempi ci si divertiva, venivamo ospitati nei migliori alberghi del mondo, ma la fame era tanta e i soldi pochissimi ». Tranne i top player anche i tennisti di oggi pare che non se la passino bene. «Ma no. Ora se entri nei primi 120 del mondo e partecipi a 4 tornei dello Slam ti porti a casa sugli 80mila euro a stagione. Se stai tra i primi 60 la cifra raddoppia. Rispetto a me che andavo avanti a panini e coca-cola offerti dall’amico barman Renato dell’Hotel Posta di Cortina, fare questo sport rimane un privilegio ben remunerato, all’interno di un movimento ancora ricco». Ma il nostro movimento sembra fermo alle due “ere d’oro”: la sua e quella successiva di Adriano Panatta. Poi il buio... «La natura è matrigna, il n.1 del mondo poteva nascere 300 km più a sud, a Como, e chiamarsi “Federelli”, invece, è nato a Berna, in una Svizzera che non ha mai avuto tradizione tennistica, ed è diventato Roger Federer. Il tennis azzurro maschile da anni vive la condizione del “mantenuto” da quello femminile che è ai vertici mondiali, però un po’ di luce si comincia a vedere. Non abbiamo il campione con la “C” maiuscola, ma tanti buonissimi giocatori sì. Fognini è stato numero 17 dell’Atp e il giovane Quinzi è uno molto buono in prospettiva». Sarà, ma quel «passante di rovescio indecifrabile», citiamo Gianni Clerici, che rese Pietrangeli n.1 del mondo della terra rossa non si è più visto. «Clerici è il “poeta del tennis” e in effetti con quel colpo ho vinto due Roland Garros di fila nel 1959 e nel ’60 - e un Internazionale d’Italia - 1961 - arrivando all’apice.Quando non mi riusciva tra me e me sbottavo: ti prego non mi abbandonare pure tu... Comunque, non mi piace parlare di ciò che ho combinato in campo. Se hai fatto qualcosa di buono nella vita, autocelebrarsi trovo sia un segno di debolezza oltre che di senilità precoce». Infatti, nella sua avventurosa biografia “C’era una volta il tennis” (Rizzoli), scritta da Lea Pericoli, si parla pochissimo di tennis. Ha letto quella di Andre Agassi? «Anche se “Open” l’ha scritto un premio Pulitzer ( J. R. Moehringer, ndr) non ho voluto leggerlo. Agassi che 25 anni dopo ci racconta che per giocare si doveva “drogare” non mi interessa. Preferisco rileggere le imprese del campione che è stato». Niente doping ai tempi del doppio magico Orlando Sirola-Nicola Pietrangeli? «Ma che scherziamo? Sirola poi era serissimo, tutto tennis, chitarra e osteria. Il mio doping, come diceva Orlando, era “stare sempre appresso alle principesse”...». Lei, sportivamente parlando, ha fatto perdere la testa anche al Maraja di Baroda. «Un personaggio incredibile il Maraja. Stravedeva per la nostra Nazionale, così, quando andammo a giocare la Davis in Svezia venne aggregato come “vice ct in pectore”. Mi aveva invitato a trovarlo a Baroda, è l’unico viaggio che mi pento di non aver fatto». Mai pentito, invece, di quella trasferta da ct azzurro nel Cile di Pinochet per la finale di Coppa Davis del 1976? «Pentito? Dispiaciuto e offeso, piuttosto: l’unica volta che abbiamo riportato la Davis in Italia ci siamo dovuti nascondere come dei ladri... Ho vissuto scortato per giorni e mi sono beccato pure del “fascista”, io che nell’80 scesi in piazza a protestare contro gli Usa che boicottavano le Olimapidi di Mosca. E c’è ancora chi è convinto che Panatta e Bertolucci a Santiago giocarono con la maglia rossa per provocare il regime di Pinochet... Adriano in “rosso” aveva vinto Parigi e Roma, altro che provocazione politica». Scaramanzie da tennisti, ma lei che rapporto ha con la fede? «Da vigliacco ho sempre cercato Dio nel momento del bisogno. Anche in campo, confesso che l’ho pregato di farmi vincere, ma anche di far commettere un doppio fallo all’avversario...».Piccole crudeltà di un uomo generoso e vicino al prossimo. «Faccio quello che posso. Se una fetta dei 60 milioni di italiani offrisse un euro soltanto ogni mese si potrebbe continuare a costruire alloggi per le famiglie dei bambini malati di cancro ricoverati in ospedale - come abbiamo fatto con Lea Pericoli a Milano - o ampliare una scuola in Kenya aperta con 10 alunni e adesso ne ospita più di cento. Questi sono i match più belli che mi piace vincere».E per le sue 80 primavere che match si regalerebbe? «Un bel doppio “semi-misto” sul centrale del Foro Italico che porta il mio nome. Mi piacerebbe giocare in coppia con papa Francesco, contro la mia amica Lea Pericoli e da lassù in cielo richiamerei Sirola. Sarebbe un gran bel regalo di compleanno».