Ci sono attori che non hanno la vocazione del divo, ma che in anni di palcoscenico si sono guadagnati la stima e il successo con un lavoro intessuto di talento, sudore e polvere. Fino a che la televisione o il cinema non si accorgono di loro, spesso in ritardo. È il caso di Paolo Pierobon, uno dei migliori attori italiani, recitazione tagliente e suadente, e volto inquieto che gli hanno fatto guadagnare spesso ruoli “borderline” in teatro con Elio De Capitani, Mario Martone e Ronconi (con cui ha fatto nove spettacoli) che lo definiva «attore estremo ». Ma anche nel cinema e in tv. Basti ricordare l’efferato agente dei servizi segreti Filippo De Silva che gli ha dato la popolarità nella serie tv Squadra antimafia e che riapparirà nella fiction Rosy Abate-La serie in onda su Canale 5 dal 5 novembre. Pierobon è dovuto arrivare a 50 anni per diventare protagonista al cinema, in L’ordine delle cose di Andrea Segre, presentato a Venezia e ancora nelle sale, in cui è un alto funzionario del ministero dell’Interno delegato a bloccare il traffico dei migranti dalla Libia. E presto a teatro sarà un avvocato pachistano musulmano in crisi di identità nella New York post 11 settembre, in Disgraced (Dis-crimini), testo di Ayad Akhtar vincitore del Premio Pulitzer nel 2013, con la regia di Martin Kusej, produzione del Teatro Stabile di Torino che inaugura la sua stagione il 10 ottobre al Carignano.
Disgracedmostra le divisioni fra Occidente e Oriente nella vita delle persone comuni dopo l’11 settembre. Cosa vive il suo personaggio?
«L’opera è scritta da un newyorkese pachistano e racconta di Amir, un avvocato cresciuto in America ma nato in Pakistan. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle è arrivato a cambiarsi il nome e a mentire sul suo luogo di nascita, pur di integrarsi senza problemi e di scalare il successo. Il suo mondo comincerà a incrinarsi, sino alle estreme conseguenze, quando la moglie, una pittrice americana che adora, decide di dedicarsi all’arte islamica con un così irritante che lo costringe a confrontarsi con le sue radici culturali».
La crisi identitaria di chi è immigrato è un tema attuale.
«Certo, Amir è laico ed è un fiero oppositore delle derive più tradizionaliste dell’islam. Ma sia il desiderio, sia la pressione del doversi allineare a un certo modo di essere dell’occidente, crea una crisi profonda. È un aspetto comune a molti immigrati che sono costretti a interiorizzare un senso di oppressione che può sfociare in un disorientamento anche violento ».
Terrorismo, razzismo, divisioni religiose sono sintomo anche di una crisi dell’Occidente?
«La crisi è da tutte e due le parti, la natura della tolleranza può essere fragile. La questione dell’integrazione non è una astrazione da tg, si riflette nel privato e ci pone in prima persona domande urgenti sulla convivenza e sul nostro atteggiamento».
Un po’ come succede a Corrado, il funzionario di polizia protagonista de L’ordine delle cosedi Segre che deve agire per bloccare i migranti, ma va in crisi di fronte alla richiesta di aiuto di una ragazza eritrea.
«Il personaggio offre allo spettatore il punto di vista occidentale, perché è l’unico credibile. Spesso l’estrazione dei registi è alto borghese e pur con la buona volontà non riescono ad essere credibili nell’assumere il punto di vista di un profugo. Invece davanti a quest’uomo diviso tra dovere e umanità, anche noi siamo a costretti a domandarci: e io cosa farei?».
A novembre lei debutterà al Piccolo di Milano in Fine pena: ora sulla funzione riabilitativa del carcere.
«Magari si potessero sempre scegliere argomenti così. Mauro Avogadro porta in scena la drammaturgia di Paolo Giordano dal libro scritto dal giudice Elvio Fassone, che ebbe un carteggio per 26 anni con un giovane delinquente condannato all’ergastolo nel maxiprocesso alla mafia catanese del 1985. Il giudice sarà Massimo Foschi, io, ovviamente, l’ergastolano [ride, ndr]. Il discorso punta sulle possibilità di riabilitazione e crescita consapevole avviato in persone dalla scolarità bassissima, cresciute in contesti infernali e finite in carcere magari da giovanissime. Qui, se ben seguite, possono davvero rifarsi una identità nuova».
E la sua di identità? Quando ha capito che voleva fare l’attore?
«Vengo da una famiglia veneta operaia, ma sono cresciuto a Milano. A 15 anni un amico mi portò a vedere Franco Branciaroli in In exitu all’Out Off e rimasi folgorato: Testori con quella lingua impastata di mistero fangoso, magmatico, che mescolava dialetto e latino mi convinse che dovevo recitare. Cominciai così col teatro di strada e col teatro amatoriale finché venni ammesso alla Scuola Paolo Grassi. Ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri, poi di lavorare per sei anni con Elio De Capitani all’Elfo, fino ad arrivare a fare 100 repliche di Anna Karenina diretta da Nekrosius».
Lei è stato fra i protagonisti degli ultimi grandi spettacoli di Ronconi, compreso l’ultimo, Lehman Trilogy. Che ricordo ne ha?
«Ho passato degli anni meravigliosi, Luca ten- deva ad estremizzare e ad alterare. “Se non si entra alterati in scena non si comunica” diceva sempre spingendo noi attori a uno sforzo superiore per raggiungere la sintesi e la metafora attraverso la nostra interpretazione».
Lei frequenta anche la fiction, da Squadra antimafia a 1993di Sky dove interpreta Silvio Berlusconi. C’è spazio per gli attori provenienti dal teatro?
«Mi sono molto divertito, anche a dare volto al cavaliere, come avverrà ancora in 1994. Il problema è che lavorando e vivendo a Milano, ho pochissime possibilità di passare per Roma dove è concentrata l’industria cinematografica. Questo è un handicap per molti bravi attori di teatro. Se ci fossero più produzioni e maestranze a Milano e nei capoluoghi di provincia, avremmo anche tanti punti di vista diversi nella fiction».