Il sogno di ogni atleta è senza dubbio quello di poter partecipare ad un’Olimpiade. È il coronamento di tanti sacrifici bagnati dal sudore e dalla fatica. In palio c’è la medaglia d’oro ma soprattutto l’esclusiva di entrare nell’Olimpo dello sport mondiale dove solo ad alcuni è permesso prendere posto. È l’occasione della vita. Ma la vita, come ci ha insegnato Papa Francesco, “va presa da dove arriva”, come la palla per il portiere di calcio. Non puoi prevedere dove chiama e dove ti sospinge. E se la vita è quella del proprio papà, la sua voce si fa sentire ancora più forte, nel cuore prima che nelle orecchie. È il caso di Joana Bolling, ventidue anni, giocatrice della Nazionale Argentina di pallamano, qualificata per le Olimpiadi 2016 a Rio de Janeiro. Quando ha visto che il suo rene era compatibile con quello di suo padre, che aveva urgente bisogno di un trapianto, non ci ha pensato due volte: ha deciso di donarlo perché si potesse effettuare il prima possibile l’intervento. Elnes Bolling, ex cestista, era malato da tempo, costretto alla dialisi tre volte alla settimana per poter sopravvivere. L’intervento è perfettamente riuscito il 5 aprile scorso. Il prezzo di questo gesto d’amore, però, è la rinuncia al grande sogno dell’Olimpiade. Il lungo periodo di convalescenza e di recupero non permetterà a Joana di partecipare alle prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro. «Ci sono cose che valgono più della pallamano – ha detto sorridente l’atleta – la famiglia prima di tutto». La famiglia, vera scuola di donazione gratuita, dove ciascuno è chiamato a fare la sua parte, a dare il meglio di sé con generosità. Il luogo in cui ci si sente amati e insieme chiamati ad amare. “Famiglia significa che nessuno viene abbandonato. O dimenticato”, come recita il cartone animato “Lilo e Stitch” e postato da Joana. «Nella mia famiglia ci sono sempre stati i valori dell’impegno e del sacrificio che fanno parte dello sport, di farsi da parte e di rinunciare alle cose per raggiungere un obiettivo». Il gesto più grande dell’amore è proprio quello di rinunciare a se stessi per il bene dell’altro, anche se è un’Olimpiade, fino ad offrire la propria vita. E questo non per obbligo, per vanagloria o per buonismo ma perché si decide di “voler volere bene”, che suppone una decisione consapevole: l’impegno della propria libertà. Il bene si fa, si pratica anche se costa. Il bene non fa parte solo del vocabolario ma dell’azione. Ci vuole coraggio! Immagino anche più della finale in cui ci si gioca la medaglia d’oro perché qui c’è in gioco la medaglia della vita.
*Consulente ecclesiastico nazionale del Centro Sportivo Italiano di Alessio Albertini