Diventare «insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane)» era, per Benedetto Croce, il primo passo per destarsi dal fideismo culturale indotto allora, correva l’anno 1917, dal marxismo. Oggi, cento anni dopo, occorre invece svegliarsi dalle “alcinesche seduzioni” suscitate da una “moda culturale”, diventata egemone nelle accademie e nelle agenzie culturali, che ha persuaso l’orbe terracqueo che si fosse giunti alla fine di tutto. Fine della storia, fine dell’uomo, fine dell’arte, fine della filosofia. Adesso, finalmente, da questa illusione abbiamo la possibilità di uscire. La scossa, per aprire gli occhi, proviene dalla realtà. L’11 settembre del 2001 e la crisi economica del 2007 sono il sussulto che ha falsificato le teorie esaltatrici di quel mondo saturo e finito che tanto emancipatorio pareva ai tempi del crollo del muro di Berlino.
Ora la storia ha ripreso a scorrere e l’uomo ha iniziato a imputarsi responsabilmente la conseguenza delle proprie azioni. Ora finalmente la filosofia ha trovato il coraggio di essere se stessa e, avvolta da stupore, di interrogare il reale. Con Roberto Mordacci e il suo La condizione neomoderna (Einaudi) si torna a pensare. Si abbandonano le derive rinunciatarie degli ultimi trent’anni. «Le nuove profondissime crisi – avverte – ci rimettono sul percorso accidentato e inquietante di una storia dal futuro incerto e dal profilo potenzialmente tragico, ma che dobbiamo ricominciare a pensare, progettare o almeno provare a immaginare».
Egli accantona le panoplie di cui si fregiavano i discorsi più accreditati nelle università e, finalmente, guarda il reale. Ridurre ogni sapere a giochi linguistici, spacciare le identità per liquide e inconsistenti, sostenere che non ci siano fatti ma solo interpretazioni porta ad avallare, ammonisce Mordacci, il «proliferare dei populismi, delle derive integraliste (se non c’è verità, perché non prendere la mia verità per assoluta e aggredire tutti gli altri?) e del disorientamento morale di almeno due generazioni». «Non è con il senso di colpa né con l’idea di un declino volontario – continua – che si può stare sulla scena della storia ma solo con il chiaro senso della responsabilità per un futuro vivibile e con la fiducia necessaria per realizzarlo».
Il postmodernismo, è questa la moda culturale responsabile dell’immobilismo storico, della stolida rassegnazione ad accettare quanto accade senza alzare un dito o pronunciare un’obiezione, il postmodernismo, dicevamo, porta a «delegittimare a priori ogni impresa culturale, con l’argomento che ogni criterio di vaglio fra le possibilità sia già violenza, che distinguere tra bene e male sia già una forma di totalitarismo. Il presente non ci consente questa indifferenza. Ci chiede piuttosto di osare un criterio o, almeno, un rifiuto netto di ciò che è certamente inaccettabile». Sono anni decisivi, i nostri. «Non sono un periodo felice né l’alba di una nuova promessa. È piuttosto un periodo di lotta e di sofferto impegno per ciò che ci costituisce e ci rappresenta sulla scena della storia e senza il quale accadrebbe realmente non solo il nostro tramonto ma, forse, quello dell’umanità intera».
Non bisogna essere sconsolati. Non è la prima volta che accade. Già tra Cinquecento e Seicento l’Europa ha vissuto un travaglio simile. Sanguinarie guerre di religione, spaesanti scoperte scientifiche e geografiche, assolutismi scambiati per verità. Eppure i Cartesio, gli Hobbes, i Leibniz, gli Spinoza, i Locke, gli Hume hanno cominciato a cesellare, scontrandosi pur con sviste e errori, strategie di pensiero per superarle. Ne è nato il soggetto, lo Stato, la morale autonoma. Insomma il mondo come noi lo conosciamo, con difetti e macchie ma anche pregi e conquiste al punto che nessuno, anche se dotato della macchina del tempo, vorrebbe tornare in quei secoli. Oggi, pur con le debite differenze, secondo Roberto Mordacci, viviamo qualcosa di simile. Fronteggiamo un disordine mondiale, ci confrontiamo con nuove scoperte scientifiche e l’assolutismo delle verità è tornato a fare capolino.
Ci ritroviamo come all’alba della modernità. Siamo, in qualche maniera, neomoderni. Ora dobbiamo ritrovare il piglio del pensiero che ha condotto allora oltre le acque in tempesta. Per farlo occorre scrollarsi di dosso le ingannatrici pastoie postmoderne che ci hanno resi incapaci di pensare e agire assicurandoci di essere al capolinea e «riconoscere il nostro ruolo e il nostro impegno sulla scena del mondo presente se vogliamo ancora avere un futuro».