Lo scrittore Ferruccio Parazzoli
I personaggi minori non esistono. Sono un’invenzione dei lettori svogliati, forse una superstizione della critica. A contare veramente, infatti, non è lo spazio materiale che ciascun personaggio occupa nel racconto, ma quello che riesce a conquistarsi nella mente e nella memoria del lettore. Nei Promessi Sposi, per esempio, la madre di Cecilia appare per non più di due pagine, eppure è impossibile dimenticare la sua «giovinezza avanzata, ma non trascorsa », il modo in cui consegna ai monatti il corpo della bambina morta, quell’annuncio («Stasera verremo anche noi...») che è già profezia. Non ci sono personaggi minori in Moby Dick, né nel teatro di Shakespeare, tanto meno nella Divina Commedia. E non ce ne sono nei romanzi di Fëdor Dostoevskij, che spesso affida a un presunto comprimario il compito di pronunciare la frase decisiva, come quella sulla bellezza destinata a salvare il mondo, che nell’Idiota lo studente Ippolit afferma di aver udito dalle labbra dell’insondabile principe Myškin.
Per Dostoevskij ci sono solo protagonisti, perché in effetti c’è un solo protagonista, ossia l’Uomo del Sottosuolo, la cui voce ossessiva si leva nelle Memorie del 1864 e da allora non smette più di far avvertire la sua eco. La si percepisce anche nella fisionomia superficialmente bonaria di Razumichin, che in Delitto e castigo è l’amico e confidente dello sventurato Raskol’nikov. Proprio Razumichin – anzi, Vrazumichin, secondo la grafia corretta del cognome – è la figura non secondaria che Ferruccio Parazzoli sceglie per dare forma a Il grande peccatore (Bompiani, pagine 240, euro 18,00, in libreria dal 13 febbraio), rivisitazione fantastica, e nello stesso tempo minuziosamente documen-tata, della biografia di Dostoevskij. Perfino il titolo è preso in prestito da un abbozzo dei Demoni, ma altrettanto minuziosi sono i riferimenti all’epistolario, ai taccuini, alle testimonianze dei contemporanei. Dostoevskij è, non da oggi, l’autore con il quale Parazzoli dialoga più fittamente. Non è questione di trame, ma di visione del mondo: di interrogazione e rovello, non di soluzioni narrative. Scrivere è una roulette russa è, non casualmente, l’insegna sotto la quale l’ottantatatreenne Parazzoli (è nato a Roma il 26 agosto 1935) ha riunito lo scorso anno una serie di saggi per Vita e Pensiero. Ma già il suo libro d’esordio, O città o Milano del 1976, annunciava quella poetica della metropoli che nel Grande peccatore si trasforma in meditazione su una Pietroburgo allucinata e compromessa: «Massicce case nere e affu- micate, fasci di luce a gas nella nebbia, lo sdrucciolevole lungofiume, esistenze piccoloborghesi, una scala sporca, biancheria appesa, poi la via Gorochovaja con ricche botteghe e lussuose carrozze tirate da superbi cavalli...». Sembra Dostoevskij e invece è Parazzoli o, per essere più precisi, Parazzoli in costume da Vrazumichin.
La finzione su cui Il grande peccatore si basa è infatti quella classica del manoscritto ritrovato, con la leggera variante di un «librino, stampato su carta dozzinale » che lo stesso Parazzoli avrebbe ricevuto in dono insieme con la traduzione di cui ora si fa redattore. Vrazumichin è esistito veramente, dunque, e ha conosciuto e frequentato Dostoevskij, che a un certo punto lo ha eletto a testimone della propria esistenza. Incarico tutt’altro che lusinghiero, poiché Fëdor Michajlovic (spesso abbreviato in FM) sa benissimo che Vrazumichin è a sua volta uno scrittore, ma votato al fallimento. Se ha scelto lui come «ombra» e come «scimmia», lo ha fatto per avere qualcuno che gli somigli senza eguagliarlo e che possa farsi custode dei suoi segreti più inconfessabili. Ma nel 1881 – dopo che Dostoevskij è morto all’improvviso, non ancora sessantenne – il suo doppio esce allo scoperto e va in cerca di un editore al quale affidare le proprie memorie. L’episodio più scottante riguarda proprio Delitto e castigo: incapace di invenzione, Dostoevskij avrebbe plagiato l’altrimenti incolpevole Raskol’nikov per indurlo a uccidere la vecchia usuraia, per quanto non sia detto che l’«esperimento» vada a segno secondo premeditazione. Ma questo, in fondo, ha poca importanza. Vrazumichin è più interessato a ricostruire il periodo della formazione di Dostoevskij, tra il debutto da romanziere e l’accusa di cospirazione ai danni dello zar. Sono gli anni che precedono la scoperta abissale del sottosuolo, segnati dal matrimonio con la sfuggente Marija Dmitrievna, la cui morte segna, nel fatidico 1864, la fine di questo irripetibile apprendistato esistenziale.
Dostoevskij ormai si conosce, non ha più bisogno che Vrazumichin lo segua come un’ombra, non ha più necessità di una scimmia che imiti e anticipi le sue mosse. Il suo sosia letterario si rassegna però a rientrare nel rango di personaggio minore. «Volete il mio pensiero su tutto questo? No, non ve lo dirò, non lo dirò mai», protesta Vrazumichin, che intanto continua a registrare gli abbandoni mistici di Dostoevskij così come le sue cadute più nascoste. Il resoconto che ci consegna è, da ultimo, assai meno consolatorio di quello successivamente fornito dalla seconda moglie dello scrittore, Anna, definita senza troppi complimenti «un piccolo mastino ingordo». E qui davvero non si capisce se a scrivere sia Parazzoli oppure Vrazumichin.