venerdì 6 settembre 2024
La mostra itinerante e diffusa approda in Piemonte. Il progetto curato da Carlo Falciani evita le secche ideologiche e riconnette la contemporaneità con i grandi temi:la vita e la morte
Panorama Monferrato, una delle sale di Palazzo Callori a Vignale

Panorama Monferrato, una delle sale di Palazzo Callori a Vignale - Courtesy Italics /Cosmo Laera

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È davvero un peccato che Panorama, la mostra diffusa che per la sua quarta edizione è approdata in Monferrato, duri soltanto quattro giorni (aperta ieri, chiuderà domenica). Peccato davvero, perché quello ideato, curato e allestito da Carlo Falciani, storico dell’arte specializzato nel Cinquecento fiorentino, è forse il più bel progetto espositivo che si sia visto da qualche anno a questa parte. E non appare un caso che a costruirlo non sia stato un curatore di settore o un contemporaneista. Falciani ha sgombrato il campo da ideologie e obblighi contrattuali da scenario internazionale e ha rimesso l’arte contemporanea a confronto con le problematiche essenziali, proprie dell’arte tout court. Una salutare riconnessione al suolo.

Organizzata da Italics, consorzio che riunisce oltre settanta autorevoli gallerie italiane d’arte contemporanea, moderna e antica, Panorama ha la caratteristica di lavorare in modo trasversale rispetto a epoche e generi, anche se la contemporaneità fa da traino. Il percorso costruito lungo il crinale tra i borghi di Camagna, Vignale, Montemagno e Castagnole (rigorosamente in questo ordine), tra le province di Alessandria e Asti, vede l’impiego di luoghi alternativi, molti riattivati e resi accessibili per l’occasione, e tutti sorprendenti. Falciani ha però deciso di articolare le quattro tappe in altrettanti capitoli di un percorso saldamente strutturato: “Lavoro e radici”, “Ritratto e identità”, “Caducità e morte”, “Sacralità dell’arte, anche laica” (specificazione che suona posticcia, ma forse è dovuta alla necessità di far digerire al sistema un tema ancora faticoso: ma sacro non è certamente sinonimo di confessionale o religioso…). Sono i grandi temi dell’uomo.

A fornire quadro generale – riconoscibile più che nei temi nella struttura, nell’impianto generale umanistico e nel dispositivo dialettico dell’allestimento – provvede La civil conversazione, un dialogo pubblicato nel 1574 da Stefano Guazzo nella scia del Cortegiano, e ambientato proprio a Casale Monferrato. Oggi pressoché dimenticato, fu all’epoca un vero bestseller: dopo la seconda edizione ampliata del 1579, fino alla metà del Seicento vide 43 edizioni italiane oltre a traduzioni in latino, tedesco, inglese e francese, divenendo lettura essenziale sia per l’Inghilterra dei Tudor che per la Francia di Montaigne. Se, scrive Falciani, questo «mostra come proprio alcune idee nate in Monferrato fossero state fondamentali per l’Europa fra Cinque e Seicento», soprattutto «La civil conversazione si iscrive in quella che potremmo definire una “civiltà del dialogo”». Questo, infatti, «viene posto al centro dello sviluppo etico dell’uomo, poiché la parola della letteratura, e più in generale delle arti, è il solo strumento capace di coltivare la virtù ed elevare lo spirito. Il discorso dialettico permette così la risoluzione dei conflitti e l’accrescimento della comunità chiamata, nel Cinquecento come oggi, a risolvere le mutazioni che la storia rende ineludibili». Non solo: «Nei nostri anni è sovente leggere interpretazioni del Rinascimento, e soprattutto degli anni in cui fu scritta La civil conversazione, dove quel momento della storia viene identificato con la radice iniziale dell’antropocene, crediamo invece che proprio quell’epoca, con la sua complessità e con la molteplicità dei differenti punti di vista filosofici messi in dialettica fra di loro, contenga idee feconde ancora oggi capaci di germogliare».

Troviamo La civil conversazione in tutte e quattro le sedi, ogni volta in una edizione diversa e aperto progressivamente sui quattro capitoli di cui è composto. È un efficace fil rouge, che non piega a sé quanto vediamo (le opere, evidentemente, non lo illustrano) ma ne illumina la logica. Ogni tappa ha una tonalità, un timbro differente. “Lavoro e radici” a Camagna ha quello della ruggine e della terra. È la sezione in cui si avverte più esplicita la riflessione sul territorio ospite. La principale sede espositiva è l’ex Cottolengo. Riconosciamo subito il principio dialettico che mette in relazione virtuosa spazi e opere, un “dare e avere” in atto negli stessi fenomeni storici esplorati. I ritratti di Franco Vimercati che, sulla scia di August Sander, realizza nel 1973 nelle Langhe sono accostati a Let’s make cows fly! (2019) in cui il giapponese Shimambuku fa volare un aquilone a forma di mucca per una mandria al pascolo. Le sculture di Uncini che esaltano la bellezza industriale del cemento armato sono messe a contrasto con le radici industriali del Monferrato che hanno prodotto tanta ricchezza quante ferite. Nella cappella troviamo The paradoxical nature of life (2023) di Arcangelo Sassolino, una lucida incudine di 280 kg appoggiata sopra una sorta di tavolo di vetro. Il lavoro, basato su tensione, resistenza e fragilità, qui appare un altare della sacralità del lavoro. Alla cappella ci si affaccia da una altra sala in cui troviamo incudini disfatte e macchine da lavoro prodotte da artigiani tra XVIII e XIX secolo.

Panorama Monferrato, le cantine del castello di Montemagno

Panorama Monferrato, le cantine del castello di Montemagno - Courtesy Italics /Cosmo Laera

A Vignale, nell’ampio Palazzo Callori, si mette a fuoco “Ritratto e identità”, tema antico quanto l’arte stessa ma che nella contemporaneità ha acquisito ulteriori stratificazioni e flessioni. Esemplari qui la galleria con le fotografie e gli specchi di Susana Pilar, in cui appare come un fantasma il Ritratto allegorico di giovane di Mirabello Cavalori (post 1565), e la sala in cui, grazie a una oculatissima organizzazione, i ritratti settecenteschi di Carlo Amalfi, le fotografie dell’angolano Edson Chagas e un frammento di un marmo di età imperiale con il viso Ulpia Marciana mettono in questione le distanze tra volto e maschera.

Montemagno è la tappa più emozionante, grazie anche alla perfetta integrazione con gli spazi, ossia i voltoni della scalea barocca e il castello. Il tema “Caducità e morte” è conseguente ai ritratti (Belting insegna) e contiene di fatto già per intero la domanda del sacro dell’ultimo capitolo. La chiave è barocca. I fiori dipinti nei Cinque sensi nel 1673 da Giuseppe Recco ritornano nel profumo che pervade – come in una camera mortuaria – l’installazione al castello di Francesco Vezzoli, spazio liminale affacciato sul mistero. Nella cripta barocca Marzia Migliora porta Prey, un blocco di salgemma trafitto da un arpione, e una installazione sonora, composta dalla simulazione artificiale del canto degli uccelli (una eco tassiana del giardino di Armida?), che arriva remota dall’ossario, inattingibile. Superbo il passaggio nelle cantine gotiche del castello, teatro della fine dei tempi: il grande paesaggio montano come un sipario strappato di Latifa Echakhc (2020) si trova a dialogare con un antico, monumentale torchio che acquisisce – complice il grande crocifisso appeso alla parete – una qualità mistica e apocalittica.

Dopo la forte qualità corporea di Montemagno, a Castagnole il sacro cerca la smaterializzazione. Nell’ex asilo Regina Elena troviamo il pavimento in specchi di Alfredo Pirri e per l’eternità, scultura invisibile, olfattiva, di Luca Vitone, che è anche ricordo delle vittime dell’Eternit. Nella surreale Casa della Maestra abbiamo finalmente modo di apprezzare nella scala borghese le opere di Morandi e Melotti. Il finale è nella chiesa dell’Annunziata, con l’installazione di Michel Verjux, dove la luce basta.

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