Bambini Shuar giocano lungo il fiume nella selva - Kintianua/CC by 4.0
Sono tornato a Quito dopo trentasei anni. Speravo di rivedere un amico che mi ha aperto allora le porte dell’Amazzonia e il fascino dell’antropologia, ma Juan Giovanni Bottasso, il salesiano piemontese che ha lavorato più di chiunque altro al riscatto delle culture indigene dell’Amazzonia e delle Ande è morto nel 2019. Se non lo avessi incontrato nel 1985 e non mi avesse spedito in “oriente”, nella selva degli Shuar e degli Achaur, le tribù fiere della foresta che hanno resistito più a lungo contro gli spagnoli e poi ai tentativi di assimilazione, non sarei diventato antropologo.
La storia di Juan Bottasso è un’avventura. A diciassette anni parte con il fratello Domingo per diventare missionario nella foresta. Sono gli anni in cui il ruolo dei missionari comincia a essere messo in dubbio da loro stessi. La pratica di sottrarre i bambini ai villaggi per educarli nelle missioni ai valori del progresso comincia a essere considerata lesiva delle culture indigene. Il congresso missionario di Medellin negli anni sessanta segnerà una svolta definitiva. Bottasso e molti giovani missionari con lui, tra cui il padre Luis Bolla decideranno che il ruolo dei missionari è quello di comprendere e difendere le culture indigene, evangelizzare non significa essere al servizio degli stati nazionali che vogliono estinguere la cultura di questi barbari arretrati.
Si tratta, anzitutto, sosterrà Bottasso, di comprendere il profondo valore spirituale delle culture amazzoniche, i missionari devono imparare dagli antropologi quel fieldwork, “vivere insieme” agli indigeni senza imporre la propria cultura. Saranno loro a cercare di essere accettati nei villaggi, ribaltando la logica predatoria in vigore fino a poco tempo prima.
Donne e bambini Shuar coltivano un campo di “papa china”, un tipo di tubero - Kintianua/CC by 4.0
Juan e Domingo e Luis Bolla vivono una stagione eroica, insieme al padre Pellizzaro che sta finendo di compilare un dizionario shuar, formano alla scrittura bilingue i giovani shuar. Alcuni di questi raccontano il senso del vivere nella foresta, il rapporto con Arutam, lo spirito che annuncia a ognuno la sua vocazione (guerriera e non) con le forze della selva, con gli antenati, la complessa cosmovisione espressa in una ritualità linguistica impressionante. Gli Shuar e gli ancora più remoti Achuar coltivano una dialogicità e competitività fatta di rime, formule, una eleganza di forme quasi impossibile da apprendere.
Juan Bottasso decide che bisogna creare uno spazio nuovo per le culture indigene. Si consulta con gli antropologi, tra cui Antonino Colajanni e Maurizio Gnerre, vuole pubblicare le tesi di diploma dei giovani indigeni. Nasce così negli anni ’70 la casa editrice Abya Yala, un nome preso in prestito dagli indigeni Kuna di Panama, gli unici nell’amerindia che abbiano un nome per il continente. Abya Yala significa la terra che splende. Cominciano le pubblicazioni e allo stesso tempo il lavoro costante di Bottasso di aprire il mondo missionario a quello dell’antropologia. Sarà una collaborazione fervida, intensa, con antropologi come Philippe Descola e Anne Christine Taylor, con Sabine Speiser e centinaia di altri studiosi che trasformeranno non solo la visione missionaria, ma anche l’atteggiamento della antropologia accademica nei confronti del mondo missionario.
Una ragazza Shuar nella regione di Taisha / - Danny Kuja/CC by 3.0
Abya Yala pubblicherà il diario di José Arnalot, un ex missionario salesiano che vivendo in mezzo agli Shuar capirà che ha ben poco da insegnare e molto da imparare. Il suo libro Quello che gli Shuar mi hanno insegnato segna una tappa fondamentale. Nel frattempo Luis Bolla chiederà al suo vescovo il permesso di “perdersi” nella foresta e vivere in tutto e per tutto come uno Shuar, non evangelizzando se non con la propria condivisione. Bolla, che da ora in poi si chiamerà Yánkuam’ diventerà una leggenda vivente, fuggendo nella selva sempre più remota per allontanarsi da quel progresso e da quella civiltà che vorrebbe assimilare gli indigeni.
Il lavoro di Bottasso diventerà sempre più coraggioso, fonderà una Università con un dipartimento di Antropologia Applicata ed essendo un uomo “politico” cercherà in tutti i modi di influenzare il governo dell’Ecuador perché dia agli indigeni i diritti alla terra in cui vivono e il rispetto delle loro lingue e culture. Con effetti straordinari perché otterrà che nelle scuole del paese esse vengano insegnate e contribuirà ad allargare “la lotta” agli indigeni della sierra di lingua quechua (milioni) alle popolazioni afro della costa. Nel frattempo Abya Yala comincerà a coinvolgere le popolazioni indigene del Perù, della Bolivia, della Colombia e del resto delle Americhe.
Il lavoro dell’infaticabile Juan Bottasso sarà per un verso il contributo a una nuova classe politica indigena in Ecuador e per l’altro il costante convincere la Chiesa della importanza del rispetto nei confronti dei popoli indigeni e del chiedere loro perdono per la repressione della loro cultura dalla Conquista in poi.
Villaggio Shuar nella provincia di Morona Santiago, in Ecuador - Kintianua/CC by 4.0
Fino all’anno precedente alla sua morte Juan sarà un infaticabile connettore di reti, viaggerà tra gli indigeni del Canada e quelli dell’India, sarà presente nei dibattiti di Survival International come in quelli delle Nazioni Unite. Denunciando l’attitudine per lui sbagliata della stessa Chiesa a dividere gli indigeni invece di comprendere che essi rappresentano un tutto connesso che ha una conoscenza spirituale fondamentale per la salvezza della natura e del pianeta. L’enciclica di Papa Francesco sul rapporto con la natura farà eco al lavoro decennale di Bottasso e degli altri pionieri. L’ultima opera che Bottasso porterà a termine sarà la pubblicazione dei dodici volumi del diario di quarant’anni di presenza tra gli Shuar di Yumkuam’, di Luis Bolla, un contributo straordinario alla conoscenza intima del mondo amazzonico e delle sue cosmovisioni.
Quando nel 1985 Juan mi affidò a suo fratello Domingo perché visitassi i villaggi Shuar, mi stupì la presenza di un mondo indigeno che aveva una università shuar per radio e una in presenza nella selva, che consentiva agli indigeni stessi di appropriarsi delle tecnologie e delle comunicazioni con piccoli aerei. Sull’aereo che mi portava nella foresta viaggiava un capo indigeno che aveva vissuto anni a Quito e che ora tornava perché in città si annoiava. Ricordo ancora la prima notte passata nella maloca, nella capanna Shuar, dove a me, imberbe antropologo, succedeva di assistere a conversazioni punteggiate di risate che duravano tutta la notte. Uno dei temi della loro ilarità doveva essere sicuramente il sottoscritto.
Una anziana donna Shuar - hbieser/Pixabay