venerdì 13 dicembre 2019
L’azzurro iridato a Spagna ’82 si racconta in un libro scritto assieme a sua moglie Federica. «Bearzot è stato come un padre». Mancini dice che gli manca un Rossi? «Se non avessi l'artrosi...»
Paolo Rossi e il ct Enzo Bearzot, il "Vecio"

Paolo Rossi e il ct Enzo Bearzot, il "Vecio"

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«Nel cuore dell’Africa nera i bambini conoscevano “Pablito” Rossi e fu una gioia portare loro, che giocavano scalzi, tante scarpe e palloni, oltre a medicinali e medici volontari...». Sono i ricordi di Gian Battista Fabbri, che nella sua autobiografia Gibì, una vita di bel calcio ricordava il suo «figlioccio» Paolo Rossi, talento scuola Juventus, che aveva visto sbocciare nel Lanerossi Vicenza. «Fabbri da ala mi trasformò in centravanti e ha cambiato la mia “prima” vita», dice Paolo Rossi che, a 63 anni, è lui raccontarsi. E lo fa in un’autobiografia romantica, “famigliare”, Quanto dura un attimo (Mondadori. Pagine 296. Euro 20,00), scritta con sua moglie, la giornalista Federica Cappelletti, la mamma delle loro figlie Maria Vittoria e Sofia Elena. Poi c’è Alessandro, nato dal primo matrimonio di Rossi). «Ho deciso di raccontarmi perché mi sono fermato un attimo a riflettere sulla mia vita e ho avuto l’impressione come di stare dentro a un film. Anzi, la mia vita è un film: una storia all’americana, di quelle in cui cadi, ti fai tanto male (tre operazioni al menisco tra i 16 e i 20 anni), ma poi ti rialzi e con la fede in Dio e la grande forza di volontà ce la fai, e diventi qualcuno... Chi potrebbe interpretare Paolo Rossi sul grande schermo? Beh, non vorrei esagerare – sorride divertito – ma Leonardo DiCaprio non sarebbe male... ».

Sogni e ambizioni di chi è nato Ad Ovest di Paperino, a Prato, come l’attore Francesco Nuti e i fratelli Veronesi, lo scrittore Sandro e il regista Giovanni. «Con Francesco Nuti, a 14 anni ci trovammo assieme a Coverciano per una settimana al Nag (Nucleo addestramento giovani calciatori). Era un centrocampista esile, ma bravino. Poi lui ha sempre detto: “Vidi giocare Paolo Rossi e ho capito che era meglio pensare di fare un altro mestiere”. Mi divertivano molto i suoi film e mi dispiace tanto per quello che gli è capitato...(Nuti da anni vive in una clinica, ndr). Parla il cuore grande e generoso di Rossi, che non dimentica le origini, «una famiglia normale, mai invadente. Oggi i genitori si intromettono troppo, i loro figli li vorrebbero tutti Cristiano Ronaldo e spesso combinano disastri». Negli anni ’80, «quando Paolo Rossi era un ragazzo come noi» – canta Antonello Venditti in Giulio Cesare – tutti sognavamo di diventare Pablito: il più amato e conosciuto degli italiani nel mondo. Ma lui non si è mai montato la testa. «La grande popolarità mi dava anche un pizzico di fastidio. Volevo continuare ad essere semplicemente Paolo, il figlio di Vittorio che in vespa mi portava a vedere le partite a Firenze e io rimanevo a bocca aperta, stregato dal mio idolo, “Uccellino” Kurt Hamrin che poi provavo a imitare al campetto del Santa Lucia (oggi lo stadio è intitolato al papà, Vittorio Rossi). Volevo starmene tranquillo come mio fratello maggiore Rossano, piedi per terra come mia mamma Amelia che sperava facessi il ragioniere, “almeno Paolo – mi diceva – ti danno tredici mensilità, più la quattordicesima. Vuoi mettere?”. E invece, grazie al calcio mi sono ritrovato personaggio pubblico, ma mai sentito un divo. E credo che i tifosi l’abbiano sempre capito, ed è per questo che la gente ancora mi ferma per la strada e mi abbraccia con l’emozione di chi sa che sono uno di loro».

Uno di noi, il Pablito, ribattezzato così da Giorgio Lago del “Gazzettino” («uno dei tanti amici giornalisti a cui sono rimasto legato») al Mundial d’Argentina ’78. La Coppa insanguinata conquistata dalla Selección per “consegnarla” nelle mani del regime militare del generale Videla. «In Argentina vivemmo isolati per quaranta giorni. Il ritiro della Nazionale distava cinquanta chilometri da Buenos Aires, non ci siamo accorti di niente... Poi una volta tornati in Italia ci siamo resi conto di quelle atrocità che avevano commesso i militari... ed è stato uno choc». Choccante anche la pagina nera del Calcioscommesse, il primo scandalo delle combine (1980), che lo incriminava per un Perugia- Avellino 2-2, in cui la sua unica colpa era stata quella di aver segnato la doppietta per i grifoni umbri. «Processato e condannato senza aver commesso nessun reato». Vittima innocente di dicerie degli untori. «Capisco – continua Rossi – cosa deve aver provato Enzo Tortora che per essere stato tirato in ballo da un “pentito” che fece il suo nome ha pagato la sua innocenza con il carcere duro che poi lo ha portato alla morte».

Per Pablito almeno, dopo i giorni bui dell’abbandono, seguiti ai due anni di squalifica, riapparve la luce della rinascita. E la ragione della sua «seconda vita» ha un solo nome, Enzo Bearzot. «Già, il caro “Vecio”. Se non ci fosse stato Bearzot ora non sarei qui a raccontare la mia storia. Enzo era un saggio, un uomo colto, leggeva tanto e frequentava i pittori, Guttuso, Burri... Un uomo anche ostico, ma di cui potevi fidarti, ogni cosa che ti diceva era solo per il tuo bene. Mi ha aspettato e aiutato come un padre, non lo dimenticherò mai... Mi resta il dolore di quel nostro ultimo incontro quando era già malato, ma anche la soddisfazione di aver ripagato il suo affetto e la sua fiducia, a cominciare da quel Mundial dell’82...». Tre gol alla Seleçao più forte di tutti i tempi e Pablito che da fantasma dell’opera silente bearzottiana diventa di colpo l’Uomo che ha fatto piangere il Brasile. «Sono tornato in Brasile anche lo scorso novembre, e ho rivisto gli amici di sempre: Zico, Junior, Falcao.... A distanza di quarant’anni i brasiliani per me provano una sorta di odioamore. E li capisco, ai loro occhi Pablito è la rappresentazione vivente di uno “psicodramma nazionale”. Così come per la generazione degli italiani che ha vissuto il Mundial di Spagna la nostra vittoria rappresentò una sorta di liberazione dagli anni di piombo, dalla crisi di un Paese che si aggrappava alle figure carismatiche del Presidente della Repubblica Pertini e di papa Wojtyla. E i giovani, anche grazie a noi, gli Azzurri campioni del mondo, tornarono a sentirsi protagonisti e a sperare nel futuro». Un’Italia più scanzonata che rivive nostalgicamente in Giulio Cesare, «canzone nata a casa di Gianni Minà con Antonello Venditti che poi riaccompagnando in hotel me e Tardelli, fermò la macchina in una piazzetta dove raccoglievano l’immondizia, e lì c’erano dei ragazzi che stavano giocando a pallone... Beh, noi alle tre del mattino siamo scesi dall’auto e abbiamo iniziato a giocare con loro... Oggi sarebbe impensabile no?».

Formidabili quegli anni di felicità Nazionalpopolare che si interruppe di colpo in una plumbea Bruxelles, il 29 maggio 1985, la notte di un’altra “coppa insanguinata”, quella dei Campioni d’Europa vinta dalla Juventus contro il Liverpool, ma passata alla storia come la “tragedia dello stadio Heysel” dove morirono 39 tifosi, 32 erano italiani. «Purtroppo mi è toccato vivere anche quello... L’Heysel ha cambiato il modo di vivere lo stadio. Mi auguro che il sacrificio di tante persone innocenti sia almeno servito a migliorare le condizioni di sicurezza che abbiamo raggiunto oggi, anche se a volte vedo ancora troppa violenza sugli spalti, e gli imbecilli, per fortuna sono pochi, ma con la loro ignoranza razzista spesso rovinano lo spettacolo più bello che ci sia». Torniamo in campo, dove Pablito Pallone d’oro 1982 («sono uno dei quattro italiani con Rivera, Roby Baggio e Cannavaro») ha giocato assieme «al genio di Platini», ha sfidato «il più grande di tutti, Maradona », ma l’uomo «immenso» incontrato nella sua storia azzurra e juventina («in cui ho vinto tutto») è stato Gaetano Scirea. «Tutto quello che si è detto e scritto sull’uomo Scirea forse è ancora troppo poco. Gaetano era un ragazzo esemplare, corretto, un difensore talmente moderno che i suoi movimenti, per tecnica ed eleganza, dovrebbero essere ancora studiati nelle scuole calcio».

Nella sua scuola, a Perugia, la “Paolo Rossi Academy”, prova «a ripensare al calcio come “gioco”. Oggi servono meno mister e più educatori. Il calciatore professionista ha più potere contrattuale e in ogni squadra ci sono tante aziende quanti sono i calciatori della rosa: troppi divi senza sostanza. Mancano invece i patron di “stile” come l’Avvocato Agnelli o i presidenti alla Boniperti: quando ero alla Juve ti telefonava a casa per dirti: “Ti ho visto con i capelli un po’ troppo lunghi, vieni oggi pomeriggio, il mio barbiere ti aspetta”. Certo ora è dura per un presidente telefonare al suo calciatore e dirgli: “Vieni che ci sarebbe da smacchiare un po’ di quei tatuaggi...”». Ironia tosca e tagliente, alla Curzio Malaparte, «pratese anche lui», quella dell’eterno Pablito, maestro di opportunismo, ma solo solo sotto porta. E uno così forse manca nella Nazionale di Roberto Mancini. «Il “Mancio” lo va ripetendo: “Se avessi un Paolo Rossi sarei a posto”. Se non avessi questa artrosi alle ginocchia potrei anche rispondere alla convocazione per i prossimi Europei – sorride divertito Rossi – . Sento che i suoi azzurri faranno bene, perché Mancini ha plasmato questa Nazionale meglio di un club, ha migliorato tutti i giovani che ha chiamato nel tempo e ha dato un’identità precisa alla squadra. Auguro a Roberto di diventare il Bearzot del terzo millennio. Così magari un giorno qualcuno dei suoi ragazzi potrà raccontare una bella storia come quella di Pablito».

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