La cantante Orietta Berti, soprannominata negli anni Sessanta “l'usignolo di Cavriago”
«Pronto, voleva parlare con la signora Berti? Attenda un attimo: Orietta c’è un giornalista per te...», risponde al telefono l’Osvaldo. Orietta arriva trafelata dal piano di sopra: «Mi scusi, ma cercavo i gatti, sono scappati nel solaio. Sa’ sono cinque in casa e quattro giù, si sono divisi... per via delle femmine, litigavano». È una delle sit-com quotidiane, senza ombra di fiction, dell’inossidabile coppia («siamo sposati da 55 anni, era il giorno di Quaresima») Orietta Berti e l’Osvaldo Paterlini. Ed è proprio all’Osvaldo, marito, padre dei loro due figli (Omar e Otis) manager e «uomo unico» che è dedicata l’autobiografia dell’Orietta, Tra bandiere rosse e acquesantiere (Rizzoli. Pagine 272. Euro 18,00). Un libro divertente, irresistibile come la sua protagonista, ma meritevole di aggiornamento dopo le avventure dell’Orietta all’ultimo Festival di Sanremo (ritorno con il brano in stil “volesco” Quando ti sei innamorato) in cui è stata inseguita dalle volanti della Polizia «per aver sforato di 5 minuti il coprifuoco: dovevo andare a ritirare degli abiti in hotel», e poi per l’esilarante gaffe bertesca: «Mi piacerebbe duettare con i “Naziskin” (al posto dei vincitori, i Maneskin) e “Ermal Metal” (versione heavy metal di Ermal Meta)». Per questo e molto altro, l’Orietta piace ancora tanto, e soprattutto ai giovani. Fiabesca: è una “Gelsomina” della canzone popolare, «ma non ho mai riso al circo per i clown, anzi... Federico Fellini e Giulietta Masina quando mi incontrarono mi dissero: “Ma lo sai che noi ti adoriamo, Orietta resta sempre come sei”». E lei, è rimasta sempre la ragazza nata e cresciuta nel piccolo mondo antico della Bassa reggiana. La “Marlòn” della Casa del Popolo, prima di diventare l’Usignolo di Cavriago, è vissuta tra atmosfere poetiche, alla Guareschi, osterie popolate da umanità sfamata a lambrusco e popcorn, e nostalgie rosse comuniste come dimostrano i tre fratelli cavriaghesi Rivo, Luzio e Nario e la mitica statua di Lenin, realizzata nel 1922 e posta lì al centro dell’omonima Piazza, appena “decantata” anche da Massimo Zamboni (ex chitarra e voce dei Csi) nel suo romanzo La trionferà ( Einaudi). Da Cavriago a Montecchio, nella casa di famiglia dell’Osvaldo «la nostra casa», circondata dall’amore di mamma Olga e della suocera Odilla «due linguacce quelle lì – sorride l’Orietta –, ma con loro mi sono divertita tanto e adesso che sono nonna di Olivia capisco quanto la presenza dell’Olga e dell’Odilla sia stata fondamentale per i miei figli».
Amarcord dell’Orietta che cominciò a cantare per la gioia di papà Mafaldo (appassionato di lirica e morto giovane, cadendo dalla bicicletta davanti alla chiesa). A scoprirla è stato Giorgio Calabrese che, caparbio, andò a bussare alla porta di casa Galimberti (vero cognome) e la lanciò nell’universo, allora distante, del cantar leggero.
Se Giorgio non avesse insistito tanto, forse ora non saremmo qui a raccontare questa mia bellissima storia. Dopo i primi provini dovevo incidere con una casa discografica genovese di proprietà di ricchi armatori che erano anche i produttori di Memo Remigi e Fabrizio De André... Ma al momento di pubblicizzare il disco dissero che la spesa non valeva l’impresa e mi mollarono. Per mia fortuna sono finita sotto l’ala della Philips italiana. Quei dirigenti tedeschi amavano il nostro bel canto pulito e melodico e hanno scommesso sulla mia voce...
Una voce “celestiale”, tant’è che il successo gli arrise subito con le canzoni di Suor Sorriso, nome d’arte di Jeanne-Paule Marie Deckers.
Le cantavo anche nei film musicarelli dove recitavo nei panni di Suor Teresa. Mi etichettarono subito come la “cantante fabbricata in convento”, ma quei brani di Suor Sorriso, dopo qualche tentennamento, decisi di cantarli perché erano davvero belli, e infatti fecero il botto. Andai di persona a conoscere questa suora belga domenicana, missionaria di Nostra Signora di Fichermont di Waterloo. Le sue canzoni erano proprietà del Vaticano e grazie al consenso immediato del pubblico mi chiamarono al “Disco per l’estate” del 1965, che vinsi: cantavo Tu sei quello.
Una delle sue tante hit che la trascinarono al debutto sanremese del ’66: in gara con Io ti darò di più, in abbinata con Ornella Vanoni, “l’anti-Berti”.
Allora sì, Ornella non voleva cantarla con me, preferiva Memo Remigi che l’aveva scritta. Non voleva neanche farsi fotografare assieme. Poi con gli anni si è scusata, mi ha detto che all’epoca era fatta così, ma adesso siamo diventate grandi amiche. Ci telefoniamo spesso e quando vado a Milano le porto qualche piatto che ho cucinato apposta per lei.
Ma è il Festival del 1967, quello del tragico suicidio di Luigi Tenco, che, nel bene e nel male, ha segnato la svolta della sua carriera.
Nel biglietto che trovarono accanto al cadavere del povero Luigi si faceva riferimento alla mia canzone Io tu e le rose. Provarono ad emarginarmi, quasi fosse mia la colpa... Ho sempre pensato che non si fosse trattato di suicidio. Il fratello di Tenco, Valentino, mi telefonò per rincuorarmi e mi disse che era sicuro di una sola cosa: la calligrafia di quel biglietto non poteva essere di Luigi...
Nel ’68 si rigetta in pista, con Non illuderti e si piazza al 2° posto al “Disco dell’Estate”. Poi, una cascata di copie e trionfo internazionale con quello che rimane uno degli inni nazionalpopolari: Fin che la barca va.
Ho contato i dischi venduti fino a quando erano 16 milioni, e 9 milioni sono le copie acquistate di Fin che la barca va. Il direttore dell’editoriale di Varese dove stampavamo, ogni volta che mi vedeva mi ripeteva entusiasta: «Signora Berti, grazie a lei ho fatto lavorare decine di persone e non ho mai mandato una copia di un suo disco al macero». La prendo come una delle tante medaglie da appendere al petto.
Gli anni ’70 sono stati quelli del boom dell’Orietta nazionale e dei tour senza fine.
Con l’Osvaldo abbiamo girato tutte le piazze e le sagre d’Italia e abbiamo conosciuto davvero le mille facce di questo nostro bellissimo Paese. Facevamo anche tre concerti in un giorno, 350 serate all’anno, adesso è tutto fermo per il Covid, ma non vediamo l’ora di riprendere con i nostri bravi musicisti.
Dalla musica al cinema, memorabile la sua Fiorella nell’episodio de I nuovi mostri L’uccellino della Val Padana (di Ettore Scola): lei, la pupilla dello scalcagnato manager Adriano, alias Ugo Tognazzi.
Ah, che spasso con l’Ugo. Era alloggiato a Parma ma tutte le sere dopo le riprese del film, prima mangiava alla Festa dell’Unità di Montecchio e poi ricenava qui a casa mia. Il colesterolo gli schizzò a mille, gli si era gonfiata una gengiva e allora decise di fermarsi anche a dormire da noi. Di giorno cucinava per tutta la troupe, poi una sera ci portò a cena dalle parti di Busseto: «Andiamo da Cantarelli» disse. Era un negozio d’alimentari che nel retrobottega aveva una porticina che immetteva nella piccola trattoria dove ad aspettarci seduti c’erano Monicelli e Omar Sharif venuti apposta da Milano per stare con noi. Che bello, con Tognazzi sembrava di essere sempre dentro a un film.
Peccato non ci sia il filmato di lei e Claudio Villa quella volta a New York, come racconta nel libro...
Vedemmo dei musicisti di strada e allora Villa mi fa: «Dai Orietta, mettiamoci a cantare pure noi». L’Osvaldo per la vergogna scappò via, all’epoca solo gli “arancioni” facevano quegli spettacolini lì, ma trascinata da Claudio gli andai dietro. Sentendo queste belle voci che intonavano classici italiani la gente si fermava e lasciava pure qualche dollaro. Noi ringraziavamo, ridendo come due matti.
Un duetto fantastico è stato anche quello con Giorgio Faletti a Sanremo, nel ’92: cantavate Rumba di tango.
Giorgio quando passava per scendere a Roma si fermava e dormiva qui, ma rifiutava la camera azzurra dove tengo la collezione delle acquesantiere, diceva «non per niente Orietta, ma se mi cade una in testa e poi perdo la memoria o non mi sveglio più?». Mi piaceva molto quel suo modo di scrivere le canzoni e anche i suoi libri, li ho letti tutti. Risento ancora la sua voce a quel Sanremo, dietro le quinte Giorgio mi disse: «Andiamo Orietta, uno dei due stonerà... e spero non sia tu».
Ogni domenica adesso i duetti più attesi sono quelli che fa su Rai 3 con Fabio Fazio seduta al tavolo di Che tempo che fa.
A Fabio devo tanto. Quando mi cercò la prima volta per Quelli che il calcio mi chiese: «Orietta, ma come stai messa con il pallone?» e io: guarda, dopo 5 secondi se c’è una partita spengo la tv. Allora lui: «Bene, sei proprio quella che cercavamo». Mi ha spedito ovunque, in Lapponia per seguire la partita dello scudetto della Lazio con un pastore tifoso dell’allenatore svedese Eriksson o alla casa di Elvis Presley e quando tornammo con l’Osvaldo in suo onore dipingemmo di giallo la nostra Alfa.
Ma la puntata memorabile fu quella con il Dalai Lama.
Già, che ridere... Non voleva più fare il collegamento, allora mi sono arrabbiata e al suo segretario dissi che non mi sembrava professionale. Stava per saltare tutto quando il Dalai Lama mi fissò folgorato e mi fece dire dall’assistente: «Ma questa signora ha una strana luce in testa». Io risposi secca: per forza sono le mèche della mia parrucchiera. Lui per fortuna non tradusse, e così riuscimmo a fare il collegamento con Fazio.
Dal Tibet del Dalai Lama al Madagascar, dove ha anche una figlia adottiva.
Con padre Ugolino Vagnuzzi siamo stati là nella missione cristiana, che ora non c’è più: portammo in dono aratri, medicine e giochi per i bambini come Yuki che ho aiutato a distanza e di cui purtroppo ho perso le tracce... Spero stia bene e che canti ancora le mie canzoni.
Renato Carosone ha voluto che incidesse le sue canzoni, ma qual è l’artista che più ha apprezzato lo stile della Berti?
Quando a Sanremo portai Futuro, Lucio Dalla mi scrisse: «Sei una grande, grande, grande!». Detto da Lucio che è stato un grandissimo la cosa mi emoziona ancora...
Chiudiamo con l’emozione provata con papa Francesco in Vaticano... Mi ha stretto la mano e mi ha detto: «So che lei è una cantante, ma canta bene?», il suo assistente interviene e gli fa: «Santo Padre, la signora Berti canta benissimo ». Allora lui mi guarda, mi benedice e mi saluta dicendo: «Sant’Agostino diceva che chi canta prega due volte». Io infatti prego tante volte e tutti i giorni, come faceva il mio papà.