L’oro olimpico dei 10.000 metri, l’etiope Haile Gebrselassie, classe 1973
La leggenda vivente dell’atletica africana, il maratoneta etiope Haile Gebrselassie, l’unica vera battaglia campale che aveva dovuto affrontare in quasi cinquant’anni, vissuti tutti di corsa sugli altipiani sperduti della sua terra, era stata quel giorno epico ai Giochi di Sydney, la finale olimpica dei 10.000 metri: 25 settembre 2000. Forte dell’oro conquistato quattro anni prima alle Olimpiadi di Atlanta, il prode Haile, da eroe nazionale si trovava ancora di fronte alla minaccia furente del keniano Paul Tergat, atleta della tribù Baringo, Masai per parte di madre, che non ci stava a cedere le armi e rassegnarsi per sempre al ruolo di “eterno secondo”. Era già successo ad Atlanta, ma anche ad Atene, e a Siviglia. Battaglie perse da Tergat, ma la “guerra” poteva ancora vincerla, solo salendo sul gradino più alto del podio australiano. Minaccia sventata dall’etiope: davanti ai 112mila spettatori dello stadio Olimpico di Sydney l’invincibile Gebrselassie, la spuntò sul suo “nemico” per appena nove centesimi, (27’18”20 a 27’18”29). Vent’anni dopo Haile, che ha chiuso con la maratona nel 2015, quello spirito olimpico battagliero non l’ha mai smarrito e a 48 anni, anche se ricco e famoso in ogni angolo del pianeta, non può rimanere indifferente al conflitto del Tigrai che da un anno minaccia il governo del suo Paese.
Migliaia di morti, mezzo milione di persone sotto il livello di sussistenza per la carestia e oltre due milioni di tigrini in fuga dagli stenti e la miseria di una guerra in atto tra il governo del premier Abiy Ahmed e i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai ( Tplf). Uno scontro fratricida che non può neanche essere raccontato, stampa e internet vengono oscurati. Unica testimonianza giunta sino a noi è la fonte Amnesty International che documenta il “massacro di Axum”: centinaia di civili uccisi e i loro corpi dati in pasto alle iene. Gebrselassie non ci sta a guardare passivo questo orrore e lancia il suo grido di battaglia: «Pronto ad andare al fronte con il premier Abiy Ahmed», premio Nobel per la Pace e ora a capo dell’esercito al fronte. E sulla sua scia si sono messi subito altri atleti etiopi, come Feyisa Lilesa, argento olimpico alla maratona di Rio 2016 che salì sul podio con i polsi incrociati sopra la testa per protestare contro i soprusi nei confronti della sua etnia: gli Oromo perseguitati dal governo etiope che allora era nelle mani dei tigrini del Tplf.
Quella degli atleti di Olimpia chiamati alle armi pensavamo fosse una storia giunta al traguardo del secolo scorso e definitivamente archiviata con Roma 1960. Alle Olimpiadi “più umane” di sempre il 18enne pugile afroamericano Cassiu Clay vinse l’oro dei pesi massimi e sette anni dopo quando ormai era diventato il Re supremo della boxe mondiale si rifiutò di indossare la divisa dei marines che andavano a combattere in Vietnam. Il 28 aprile 1967, ormai convertitosi all’Islam, Muhammad Ali, gridò il suo «no war!» alla Casa Bianca, pagandone le conseguenze ma meritandosi l’encomio di Martin Luther King.
Il vero eroe di quei Giochi romani fu un altro etiope, l’antesignano di Gebrselassie, Abebe Bikila. Il maratoneta Bikila era una guardia del Negus e il 10 settembre del ’60 la sua corsa a piedi nudi sui sanpietrini che lo portarono al trionfo olimpico fu la riproposizione dell’impresa di Filippide. Un soldato etiope primo all’arrivo all’Arco di Costantino. Quattro anni dopo ai Giochi di Tokyo, Bikila mise le scarpe e rivinse con tanto di record (2h12’11,2’’).
Sognava le Olimpiadi di Messico ’72, ma un incidente stradale lo bloccò su una carrozzina. Intanto le imprese sportive gli avevano fatto guadagnare i gradi di capitano della guardia imperiale e l’imperatore Hailé Selassié in persona lo fece volare sino a Londra dai migliori specialisti per rimetterlo in piedi. Ma non ci fu nulla da fare. Bikila morì da eroe di stato nell’ottobre del 1973, l’anno in cui nacque il suo erede, Gebrselassiel. Al funerale partecipò tutta Addis Abeba e un soldato che accompagnava il feretro di Bikila portava le sue due medaglie d’oro olimpiche da mostrare a una folla piangente.
Non ha ricevuto mai nessuna medaglia né le scuse del governo etiope il calciatore che ha riscritto la storia del pallone nazionale, Luciano Vassallo. «Nostra madre Mebrak (“Luce” in italiano) ad Asmara mi mise al mondo nel 1935 – l’anno dell’invasione delle truppe italiane – e cinque anni dopo nacque il mio “fratellino” Italo», raccontò Vassallo tempo fa ad Avvenire. Il bomber che, nel 1962, con suo fratello trascinò l’Etiopia alla vittoria della sua unica Coppa d’Africa, è un «eritreo, cattolico apostolico e romano», come ama proclamarsi. Ma l’essere figlio di Vittorio Vassallo, un ufficiale dell’esercito coloniale di Mussolini «che non ho mai conosciuto » è stata la sua condanna.
«Gli etiopi ci consideravano dei “bastardi”. Con gli italiani era la stessa storia. Per via delle leggi razziali anche i coloniali ci trattavano con disprezzo. Eravamo additati come i “figli della colpa”. Sfottuti e umiliati tutti i giorni, così in terza elementare ho abbandonato gli studi». Il lavoro nell’officina di un milanese, «il Cattaneo», ma soprattutto il calcio lo salvò dalla fame. Entrò nella formazione di soli meticci della Stella Asmarina – «maglia nera con una striscia sottile, bianca, che indicava il colore della pelle del genitore che ci aveva generati» – . Dalla squadra dei meticci passò al Gaggiret e poi in una formazione di italiani, mentre Italo era la punta di diamante dell’Hamasien. I fratelli Vassallo furono i protagonisti assoluti nella finale di Addis Abeba, vinta contro l’Egitto, «due dei 4 gol (la gara finì 4-2) li segnammo noi due».
Una rete del bomber Italo e una di Luciano, il capitano, il primo a salire sul palco delle autorità per ricevere la Coppa direttamente dalle mani dell’Imperatore, sua maestà Hailé Selassié, scomparso misteriosamente il 27 agosto 1975. «Lo fecero fuori quelle “iene” del regime militare, il terrorismo rosso scatenato da Menghistu Haile Mariam», denunciava Vassallo. Menghistu era anche il nome del calciatore che segnò il 4° gol nella finale della Coppa d’Africa del ’62 e nell’albo ufficiale della competizione ora tutti e 4 i gol vengono assegnati all’omonimo del leader terroristico. Cancellata dunque la memoria sportiva di Luciano Vassallo che, dopo il ’62, venne eletto miglior calciatore della Coppa d’Africa del ’68 e con i suoi 90 gol segnati in 104 presenze con la maglia della nazionale sarebbe il recordman indiscusso del calcio etiope.
Ma la sua guerra contro la federazione corrotta e la malapolitica, Luciano l’ha persa da un pezzo. Il regime dopo avergli fatto confiscare tutti i beni lo fece arrestare dalle “squadracce della morte”. «In carcere un militare che era mio tifoso, mi ha riconosciuto e ha fatto in modo che potessi fuggire in Italia». Nel ’70 Vassallo è scappato nella patria di quel padre ignoto dove fino ad oggi ha vissuto dignitosamente con il calcio, prima giocando e poi prendendo il patentino di allenatore a Coverciano. Suoi compagni di corso erano Cesare Maldini, Luis Vinicio e Armando Picchi che hanno fatto la loro bella carriera in panchina, mentre per l’ex capitano ripudiato dall’Etiopia, l’unica consolazione è stata una scuola calcio ad Ostia e una pensione minima da 560 euro «di cui 400 però – ci disse disperato – se ne vanno ogni mese per l’affitto».