Nell’opera
Aida di Giuseppe Verdi, in cartellone fra il teatro alla Scala di Milano e l’Arena di Verona, le “fatal pietre” e le sfingi sono in polistirolo. Nel
Ballo in maschera, sempre del genio di Busseto, andato in scena nel 2013 al Piermarini con la regia del funambolico Damiano Michieletto, erano pronte quarantacinque macchine fotografiche identiche, realizzate in vetroresina dentro i laboratori Ansaldo. Durante
La scala di seta di Gioachino Rossini, fortunata produzione nata al Festival di Pesaro del 2009, lo specchio gigante che spunta sul retro è arrotolato in un tubo di tredici metri. Nella rossiniana
L’italiana in Algeri, proposta al teatro La Fenice di Venezia, i macchinisti che muovevano gli sfondi erano vestiti in frac e si mescolavano fra i cantanti. Nella
Lou Salomé di Giuseppe Sinopoli, ancora targata La Fenice, le giuste pieghe all’abito di uno dei protagonisti sono state date da un magnete sistemato sulla spalla. Escamotage, soluzioni tecniche e trucchi che si adottano dietro le quinte dei teatri d’opera e che consentono alla partitura musicale di trasformarsi in «partitura visiva», come il compositore Luigi Nono aveva chiamato la complessa operazione dell’allestimento di un titolo. Quando cala il sipario, le ovazioni del pubblico vanno agli interpreti, al direttore d’orchestra, ai musicisti, al regista. Eppure c’è un mondo su cui le luci della ribalta non si accendono mai e dove gli applausi non arrivano, ma che gioca un ruolo essenziale nelle produzioni liriche che rendono la Penisola celebre in tutti i continenti. È quello degli “artisti del palcoscenico”, maestri artigiani che con aghi, pennelli, chiodi o cipria danno vita a un’opera grazie al loro virtuosismo manuale. «Fantasmi dell’opera», vengono definiti nel libro
Il bel mestiere (Fondazione Cologni- Marsilio; pagine 280; euro 35) curato da Clizia Gurrado e Laila Pozzo che raccontano questo regno sconosciuto. Il titolo viene spiegato da Franco Cologni, presidente della Fondazione Cologni di Milano che ha lo scopo di formare nuove generazioni di maestri d’arte salvando le attività artigianali d’eccellenza. «Dietro il bel canto – chiarisce – c’è un bel mestiere animato da maestranze che costruiscono con competenza e passione il successo del teatro lirico del nostro Paese». Negli atelier dei templi della musica le note sul pentagramma e le idee di un regista prendono forma. «Le scene italiane sono uniche perché curate davanti e dietro», sottolinea il responsabile dei laboratori scenografici della Scala, Roberto de Rota. Fra gli hangar si monta, si scolpisce, si dipinge, si taglia, si incolla. «Siamo passati dai fondali dipinti al costruito», puntualizza la caposcenografo Luisa Guerra. Ciò significa che oggi le scene si assemblano su scheletri d’acciaio. L’officina meccanica è il luogo del ferro; la falegnameria è la “bottega” dei rivestimenti. «La sfida è realizzare strutture enormi che siano smontabili con grande rapidità», afferma il responsabile costruzioni della Scala, Paolo Ranzani, fratello del direttore d’orchestra Stefano. Legno e tela sono oggi, come un secolo fa, i materiali più usati. «La scenografia è una scienza molto precisa, assimilabile all’architettura», sostiene l’ex caposcenografo Angelo Lodi. Reparto fondamentale ma ignoto ai più è quello della termoformatura. «Qui si creano bicchieri, maschere, fontane o cornici in materiali plastici con i calchi che consentono di replicarli all’infinito », rivela il responsabile Valerio Marraffa. I modelli arrivano dal laboratorio di scultura. «Abbiamo realizzato anche una sfinge alta diciassette metri che pesava tonnellate. Perché il polistirolo, anche se sembra leggero, ha un peso di venticinque chili al metro cubo», racconta il caposcenografo sculture ambrosiano Venanzio Alberti. Poi ci sono i costumi. «Ogni opera è come una sfilata d’alta moda per la ricercatezza e l’accuratezza nelle lavorazioni », osserva Carlo Tieppo, caporeparto sartoria alla Fenice. E riferisce di quando con il tenore Vittorio Grigolo ha fatto il giro dei negozi per trovare i jeans che avrebbe dovuto indossare Alfredo nella
Traviata di Verdi o di quando furono rifatti gli abiti per la soprano Patrizia Ciofi, ancora in occasione di
Traviata. Nei teatri girano anche i libri con tutte le taglie degli artisti. E davanti alle macchine da cucire c’è chi stila la classifica delle più affascinanti eroine della lirica. «Sicuramente Violetta di
Traviata è molto elegante per natura – dice Sabina Roge. Nastri, sarta e tagliatrice alla Scala –. Poi c’è Elisabetta del
Don Carlo, regale per rango, o Madama Butterfly per il suo innato fascino esotico come la principessa Turandot». E il trucco? Il volto è come una tela da dipingere, si ripete dietro le quinte. «Nel
Lohengrin del 2012 – ammette il responsabile truccatori al Piermarini, Franco Restelli – nessun trucco durava meno di un’ora». E svela: «Ci sono cantanti donne che non vogliono cambiare mai il proprio look o uomini che non si fanno toccare. Altri preferiscono truccarsi da soli, come accadeva negli anni Cinquanta o Sessanta quando c’era molto più divismo». La storia dell’opera è fatta anche di ciuffi e frange. «Realizziamo le parrucche cucendo con l’uncinetto un capello alla volta », tiene a precisare Mario Audello del Teatro Regio di Torino. Sul palco le scene sono animate dagli “isti”: macchinisti, elettricisti, attrezzisti. «È un lavoro di grandi sacrifici che non ha orari», nota il direttore degli allestimenti alla Scala, Franco Malgrande. Che cita il suo peggior incubo scenico: il cubo del
Macbeth del 1997. «Ho fatto l’alba perché mantenesse la posizione richiesta». L’Italia vanta il più grande palco del mondo: è quello dell’Arena di Verona. Le scene si montano dalle 8 del mattino al tardo pomeriggio. E si rimuovono di notte. «La nostra è una città abitata da tecnici e operai», afferma il direttore degli allestimenti, Giuseppe De Filippi Venezia. Il cuore pulsante è costituito dai ponti mobili che vengono manovrati da una cabina attraverso il computer. «I macchinisti sono sempre vestiti di nero per non essere visti – spiega il responsabile dei tecnici di palcoscenico al Regio, Antonio Martellotto –. E i nostri attrezzi sono da sempre l’elmetto, il martello, il segaccio, gli avvitatori che ieri erano i cacciaviti ». E il suo omologo all’Arena, Filippo Affatati, fa sapere: «Siamo davvero uno spettacolo nello spettacolo ». Che ogni sera rende immortale il fascino di un’opera lirica.