domenica 11 febbraio 2018
Parla don Gionatan De Marco, nuovo cappellano della spedizione italiana alle Olimpiadi: «Stuzzico negli atleti la nostalgia di Dio. Certo speriamo nelle medaglie, ma vincano gli abbracci»
La norvegese Silje Norendal in salto durante la finale di slopestyle alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, Corea del Sud (Ansa)

La norvegese Silje Norendal in salto durante la finale di slopestyle alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, Corea del Sud (Ansa)

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Anche ai Giochi è domenica. E così chi vuole può andare a Messa. Oggi nel villaggio olimpico di Pyeongchang i componenti della delegazione azzurra ascolteranno un’omelia particolare: la prima predica a cinque cerchi di don Gionatan De Marco. Il successore di don Mario Lusek è pronto a giocare il suo ruolo. Oltre al medico, al massaggiatore e al fisioterapista, in una squadra olimpica pure l’assistente spirituale ha il suo perché.

Don Gionatan, ci racconti innanzitutto di lei.

«Ho 36 anni e sono di Tricase, diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Da quattro mesi vivo a Roma, insieme agli altri direttori degli Uffici della Cei. Ho studiato Teologia e ho la specializzazione in Pastorale giovanile e catechetica. Sono stato parroco, oggi sono direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei e in diocesi direttore dell’Ufficio catechistico e ideatore e organizzatore dell’evento internazionale “#cartadileuca”, esperienza che vede giovani dei Paesi del Mediterraneo dialogare e sperimentare la fraternità e la convivialità».

Come è approdato nel mondo sportivo?

«Ogni rapporto bello è sempre casuale, così come il mio con lo sport. Mi piace più vederlo che praticarlo, e questo mi sta aiutando molto in questo impegno nella Chiesa italiana. Non lo vivo da tifoso o interessato, ma da prete ed educatore».

Come ha cominciato questa sua nuova avventura?

«Con lo spirito del servizio. Consapevole che non devo fare niente di più di ciò che ho sempre fatto: il prete, uno scarabocchio di Dio, come mi piace definirmi facendo mie le parole di don Oreste Benzi. E questo faccio, stuzzicando nella squadra italiana la nostalgia di Dio».

Che consigli le ha dato don Lusek?

«Don Mario mi ha parlato dell’esperienza olimpica come un’avventura entusiasmante, e non posso che dargli ragione. In più mi ha raccomandato l’importanza della presenza, indipendentemente da quanto si confessa o da quante persone partecipano alla Messa la domenica. Anche su questo sono d’accordo con lui».

Il suo primo impatto con i Giochi?

«Il contatto d’esordio è stato molto positivo, caratterizzato dal desiderio di instaurare rapporti di amicizia autentica. In fondo, l’amicizia qui è l’unico luogo dove far cadere il seme del Vangelo».

Ci racconti la sua giornata tipo a Pyeongchang.

«La mia mattinata comincia con l’invio a tutto il Team Italia e a tutti coloro che lavorano a Casa Italia del messaggio su Whatsapp con “#laParoladelgiorno”. Prendo un frase della Parola di Dio del giorno e lo faccio diventare messaggio per la vita e per la speranza dei miei amici in questa avventura coreana. Durante la giornata mi divido tra un villaggio e l’altro per incontrare gli atleti e consegnare quello che io chiamo “il mio pizzino”».

Di cosa si tratta?

«Un foglio su cui racconto il mio desiderio di incontrare gli atleti in qualche modo, così come loro preferiscono: il messaggio quotidiano, un incontro personale, la Messa la domenica».

Le piace scrivere?

«Sì, molto. Ho preso l’impegno di tenere un diario dei Giochi per la nostra agenzia Sir e poi sto scrivendo un mio piccolo libro su papa Francesco e don Tonino Bello».

Oggi cosa dirà durante l’omelia?

«Venite e vedrete sarà il messaggio che lascerò ai presenti. Non dirò niente di diverso da ciò che avrei detto ai giovani della mia parrocchia, perché non c’è un messaggio particolare per gli atleti, ma la stessa buona notizia destinata a chi cerca felicità».

Ha già visitato il centro multifede del villaggio? Per noi è stata una desolazione trovarlo vuoto.

«Ho visitato il centro multifede sin dal primo giorno, perché è lì che celebriamo Messa la domenica. Non so se sia sempre vuoto, ma la cosa più bella è che la domenica è abitato da noi, che testimoniamo il nostro essere cristiani».

Alla Messa partecipano anche atleti di altre nazioni?

«La maggior parte sono italiani, ma raccogliamo anche qualche americano che si aggrega a noi».

Come possono essere coniugati a suo modo di vedere fede e sport?

«La fede e lo sport hanno molte cose in comune: il coraggio, l’allenamento, l’allegria, l’altruismo e la fantasia di trovare il proprio modo di esprimere la bellezza che ognuno porta con sé».

Vedrà qualche gara sul campo?

«Certamente. Andrò di sicuro a vedere il pattinaggio di figura, uno sport in cui mi rivedo molto. Certo, io non danzo sul ghiaccio, ma mi sento così quando scrivo: libero di danzare la mia vita nonostante a volte sia pesante o ferita».

Che Giochi vorrebbe vivere? «Mi aspetto una rassegna dove prima del medagliere si riempia l’“abbracciere”. Devo dire che la cosa più bella di chi vive l’esperienza olimpica è proprio questa: vedere concretamente l’abbraccio tra i popoli. È bellissimo, ma non so per quanti sia la cosa più importante».

Per chiudere, qual è il suo auspicio per questi 17 giorni olimpici?

«Naturalmente quello di tutti gli italiani: vedere tante medaglie colorate di azzurro».Don Gionatan De Marco

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