Pavel Florenskij con il figlio - archivio
Nonostante le recenti traduzioni, sappiamo ancora poco in Italia del grande pensiero russo che si è inabissato al sopraggiungere della rivoluzione di Lenin e ancor più dell’arrivo al potere di Stalin: autori come Solov’ëv, Florenskij, Rozanov, Ivanov, Berdjaev, Šestov e Sergej Bulgakov hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della filosofia del secolo scorso, con intuizioni capaci di spezzare il circolo angusto e ristretto dell’ambito comunista. Ma tutto il pensiero occidentale, così segnato da un percorso moderno e postmoderno che ha messo ai margini l’elemento spirituale, avrebbe avuto – e ha ancora – solo da imparare mettendosi all’ascolto di quelle voci spesso sommerse. Come ha rilevato Sergio Givone – uno dei filosofi italiani che più attentamente, assieme a Giuseppe Riconda, gli ha rivolto la giusta attenzione – «il pensiero russo non è, o non è principalmente, quel che leggiamo nei manuali di storia della filosofia. Non è un’estrema propaggine dell’idealismo tedesco. Non è un’anticipazione di tematiche più o meno vagamente esistenzialistiche. Non è una forma di irrazionalismo. È un pensiero essenzialmente simbolico, nel senso della teologia dell’icona, per cui la parola, non meno dell’immagine, ha radice nell’eterno e dice l’assoluto. Ed è una riflessione sull’origine e sul destino dell’uomo e della storia, un pensiero del principio e della fine e dunque delle cose ultime». Prendiamo Solov’ëv (1853-1900), il maestro di Dostoevskij nonostante fosse molto più giovane, che nella sua opera ha elaborato «una nuova filosofia – come ha scritto lui stesso – che tende a unire la perfezione logica della forma occidentale con la pienezza di contenuto delle concezioni religiose dell’Oriente». Egli non contrappose mai Atene e Gerusalemme né tan- tomeno cadde nel nazionalismo ingenuo degli slavofili di cui la Russia contemporanea è ahinoi ricca di esempi. Se criticava «l’Occidente che si decompone », aveva parole dure per «l’Oriente pietrificato»: non il dogmatismo o l’immobilità lo interessavano, quanto il rapporto fra ideale e reale. Negli ultimi anni della sua esistenza coltivò il sogno dell’unità fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa e anzi si avvicinò molto al cattolicesimo. Il concetto di 'divinoumanità' e la sottolineatura della centralità dell’escatologia ne fanno un pensatore da rileggere, che ha molto da dire anche per il cristianesimo di oggi, per il suo tentativo di ridisegnare un quadro unitario che non annulla il senso del male radicale, del dubbio e dell’angoscia. Discorso che vale anche per Pavel Florenskij (1882-1937), pensatore poliedrico ucciso nei gulag staliniani. Fortunatamente in Italia si stanno ripubblicando le sue opere e l’editrice Mimesis gli dedica una collana diretta da Silvano Tagliagambe. Dopo Gli immaginari in geometria è ora dato alle stampe un suo corso di filosofia tenuto all’Accademia teologica di Mosca nel 1909: il volume, a cura di Andrea Dezi, ha per titolo Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale (pagine 262, euro 22). Come si intuisce dai primi due titoli della collana, Florenskij fu un genio che seppe unire competenze teologiche e scientifiche che assai raramente si possono ritrovare in pensatori del ’900. Nelle sue undici lezioni, il filosofo che sarebbe stato costretto a subire l’internamento in un campo di lavoro nel 1933 nell’ambito delle persecuzioni antireligiose del regime comunista e che sarebbe stato giustiziato quattro anni dopo, ribadisce ai suoi allievi che «i concetti filosofici non sono altro che trasformazioni delle forme religiose, mitiche. La filosofia discende geneticamente dalla mitologia». Così fu per i primi passi compiuti nel mondo greco, quando la filosofia apparve nelVI secolo a.C.: da Talete a Platone (la cui riflessione «è figlia luminosa del caos oscuro », scrive Florenskij citando Solov’ëv), il pensiero sgorga in un’ambivalenza di luce e tenebra, di maschile e femminile. Se nei pensatori di Mileto la filosofia «è il prodotto di una coscienza diurna», legata al culto di Poseidone e a un principio metafisico femminile, con Platone emerge «una possibilità notturna del pensiero», come rileva Dezi nella sua acuta introduzione. Il primo elemento si rifletterà nella cultura rinascimentale e moderna, il secondo in quella medievale e, auspicabilmente secondo Florenskij, postmoderna. Si torna a quanto preconizzava Solov’ëv, allorché intendeva recuperare quella unità fra umano, naturale e divino che era stata soppressa all’inizio dell’epoca moderna: una convergenza tra fede e ragione, tra conoscenza empirica e razionale in nome dello «spirito concreto e unitotale che abbraccia ogni cosa». Una sfida che reintegra il cristianesimo all’interno della filosofia, come in Italia ha immaginato Pareyson e in Francia Bergson.