Safet Zec, Il dolore e la grazia, particolare, tempera su tela, 2017 - Zec
Il testo che segue è tratto dalla lectio magistralis "L'uomo e la donna nel dono della Creazione" che Nunzio Galantino, presidente dell'Apsa, tiene oggi a Grosseto alla Settimana della Bellezza promossa dalla diocesi di Grosseto e dalla Fondazione Crocevia in collaborazione con "Avvenire" e "Luoghi dell'Infinito". L'immagine scelta per quest'edizione è l'opera di Safet Zec "Il dolore e la grazia".
Il latino “ bellus” (bello), dal quale deriva “bellezza”, è diminutivo di una forma antica di “ bonus” (buono), prossimo al nostro “carino”. Nella cultura greca arcaica la “bellezza” (kalokagathia) indica l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo. È concepita come un valore assoluto donato dagli dèi all’uomo ed è spesso associata alle imprese di guerra dell’eroe omerico e alla sua audacia, oltre che al comportamento moralmente “buono” e comunque tale da provocare ammirazione ed emulazione. Come l’eroe che la incarna, la bellezza – quella vera – è un mistero che ci raggiunge, avvolge e trasfigura. Se si ha cuore e occhi per percepirne la presenza, la si trova nella natura non violata, nel volto di un bambino non abusato, negli occhi di una madre, nelle mani di un padre che lavora, nel bisturi di un chirurgo che opera, nella donna rispettata nella sua femminilità e nella sua dignità, nel giovane che prepara con passione il suo futuro.
Qui abita e chiede di essere riconosciuta e incontrata la bellezza. Ma essa deve poter trovare dimora anche nelle nostre città perché «una città brutta – ripeteva David Maria Turoldo – abbruttisce gli uomini ». Proprio come abbrutisce e impoverisce una chiesa brutta, un governo brutto, una scuola brutta. Prima e oltre che di ministri del culto, uomini di governo, insegnanti o altro, il nostro mondo ha bisogno di “diaconi della bellezza”. «Ciò che oggi ci occorre è un sussulto, una fascinazione, un innamoramento, l’emozione per la bellezza racchiusa nel frammento» (A. Casati). La verità senza bellezza è gelida, è teorema, è assetto dottrinale, non fa trasalire il cuore. Il bene stesso e la virtù, senza bellezza, diventano pesanti, finiscono per soffocare. Senza bellezza, la vita si riduce a vuota teatralità, a coreografia perfetta ma senz’anima: parole proclamate, canti urlati, gesti ripetuti. Senza occhi che scrutano e cuore che batte non c’è bellezza.
«La bellezza è per i ricercatori di fessure, di soglie segrete, di fili pressoché invisibili. Soglie non tanto da varcare con animo predatorio, ma su cui sostare, da cui intravvedere e provare emozione, commozione. La bellezza è per i ricercatori di un oltre, quelli che hanno resistito alla seduzione della quantità, della grandezza esteriore, dell’esibizione» (A. Casati). Quantità, grandezza esteriore ed esibizione sono i veri nemici della bellezza che genera vita. Esse non fanno parte del pavimento di cui è lastricata la via dell’amore per il bello. Costituiscono piuttosto l’anticamera della solitudine, o meglio dell’isolamento che segna, talvolta in maniera ossessiva, la vita di chi è incapace di incamminarsi sul percorso segnato già all’inizio della storia dell’umanità. Quanta premura divina in quel «Non è cosa buona che l’uomo sia solo» (Gen 2,18) e nell’aver posto Eva accanto ad Adamo! Questo dono ci autorizza a rendere l’espressione “Non è cosa buona che l’uomo sia solo” con “Non c’è bellezza dove non c’è relazione”.
Insomma, dopo o accanto alla coppia bello/buono, capace di generare vita ma esposta all’egoismo divisivo e predatorio dell’uomo, vi è un’altra coppia che rende possibile e feconda la bellezza. È la coppia bellezza/relazione. Quella stessa relazione che, sin dalle prime pagine della Bibbia, sembra stare tanto a cuore al Creatore. Dio plasma dal suolo ogni sorta di animali e li conduce all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, ma tra gli animali non trova un aiuto per l’uomo, allora «formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (Gen 2,22).
Il racconto biblico non ha l’intento di svelarci l’origine scientifica della donna, intende invece consegnarci un messaggio ben più importante. Intende rivelarci chi è la donna, di quale ricchezza la sua bellezza è portatrice per la vita dell’uomo e qual è il suo posto in una creazione che, in Dio stesso, ha destato stupore e meraviglia. Il senso del racconto biblico è che l’uomo e la donna contribuiscono all’armonia e alla bellezza del progetto divino quando stanno l’uno di fronte all’altra con tutta la ricchezza di quella espressione, che continua a tenere impegnati gli studiosi della Bibbia: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda » (Gen 2,18).
La traduzione greca dei Settanta rende in forme diverse il passo: voglio fargli «un aiuto di fronte a lui», «un aiuto simile a lui», «un sostegno di fronte a lui», «qualcuno come lui che lo aiuti», «aiuto a lui corrispondente ». Desta molto interesse in me la traduzione che rende l’ebraico con «voglio fargli un aiuto per lui contro di lui», con l’aggiunta del commento: «Se l’uomo lo merita, essa è un aiuto, altrimenti è contro di lui» ( Genesis Rabbah, commento giudaico al libro della Genesi). Sta di fatto che, dopo l’iniziativa di Dio, inizia la sfida per l’uomo e per la donna: vivere l’altro/a e la sua bellezza come dono cui, a propria volta, donarsi, oppure trasformare l’altro o l’altra da dono a preda sulla quale porre il proprio marchio di proprietà mortificante ed esclusiva. Questa seconda possibilità distrugge la relazione tra la donna e l’uomo e rende ciechi di fronte a ogni espressione di bellezza di cui l’altro o l’altra è portatore/ portatrice.
Lo stesso significato del corpo, luogo della relazione, viene stravolto e tradito tutte le volte in cui viene mercificato, trasformato a nostro piacimento e privato della possibilità di esprimersi e di farsi portatore di quella bellezza che lo caratterizza. «Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio», è il compito consegnatoci dal cardinale Carlo Maria Martini. Irradiare bellezza è ovviamente tutt’altro dal ridurre la bellezza a strumento perché io dica di sì a un prodotto, a un’idea, a un progetto. La bellezza, in questo caso, è strumento di seduzione, utile per spingermi verso qualcosa, che non necessariamente è buona e vera.
Salta così l’unità tra ciò che è bello, buono e vero. La bellezza diviene solo un elemento del mercato. Di fronte al tradimento dell’idea di bello e della bellezza e dinanzi a una bellezza sempre meno percepita come dono cui corrispondere senza sfruttarla e sfregiarla, sorge la necessità di farsi carico dell’educazione al bello e alla bellezza come bene da perseguire e non come bene da possedere. Una bellezza che, anche grazie all’impegno di ognuno di noi, può continua a donare e a essere generativa. Per quel che mi riguarda, l’educazione al bello è molto di più della educazione all’estetica. È essenzialmente educazione alla relazione, alla meraviglia e allo stupore. Con le persone, col creato e con tutto ciò che ci circonda.